Sneakers, abbigliamento libero, da lavoro, presenza energica e colloquiale, americano, Dine, a ottantadue anni, col suo bel cranio rasato e la folta barba bianca, ci ricollega immediatamente al ragazzo del futuro che nel 1958, ad anni ventitré, dalla provincia dell’Ohio sbarcava a New York per dare il suo contributo all’imminente rovesciamento della scena artistica. Un contributo che, pur fortemente connotato in senso generazionale, subito si imponeva (a partire dagli happenings inventati con Oldenburg e Kaprow) per specifiche dominanti, si può dire romantiche, che giustificano appieno lo sviluppo successivo, mal compreso dalla critica bisognosa di etichette.
Di questo sviluppo nella sua produzione recente, forse non così familiare al pubblico italiano, testimonia intensamente la mostra che a Dine dedica l’Accademia Nazionale di San Luca, nelle tre stanze al piano terreno di Palazzo Carpegna. Fortemente voluta da Gianni Dessì, ammiratore di lunga data del collega U.S.A., e insieme interprete, in qualità di presidente, di una nuova, fervida stagione dell’istituzione romana, anche aperta a esperienze del contemporaneo dialoganti con la tradizione, la mostra si intitola House of Words. The Muse and Seven Black Paintings.
La «casa di parole» è la sala centrale, le cui pareti sono ricoperte dalla scrittura a carboncino di una poesia di Dine, The Flowering Sheets (i fogli in fiore), che ambienta un insieme scultoreo rappresentato da cinque muse in legno, su scala superumana, le quali ‘danzano’ intorno al ciclopico busto dell’artista in gesso bianco immacolato. Qui si compendiano quelli che, a bilancio, possiamo considerare i vettori espressivi e concettuali dell’intero percorso di Dine: l’intensità autobiografica, alla quale da sempre sottopone l’articolazione dei mezzi e delle tecniche, e che anzi, già negli esordi all’alba degli anni sessanta, lo rendeva il caso singolare e quasi inclassificabile che si è detto, fra new dada e pop art; l’interesse spiccato per la scrittura in quanto oggetto e gesto, almeno a partire da quell’I Love What I’m Doing con cui segnava diabolicamente, tra febbraio e marzo 1960, nella newyorkese Judson Gallery, la sua celebre performance The Smiling Workman, dove, inzuppato di vernice dalla testa ai piedi, beveva dallo stesso barattolo utilizzato per la frase; infine, il trasporto verso l’arte antica, vissuta non archeologicamente ma come un sedimento di possibilità per il presente.
Nelle stanze laterali della mostra, Dine presenta invece una serie di dipinti black realizzati nel 2015: tormentati, ad alto tasso esistenziale, persino funebri nelle brutali forme nere che si interpongono e soffocano la festa dei colori, prevedono, per un apprezzamento totale, che si inforchino occhiali bergsoniani, affidandosi a una visione di lunga durata. Qui l’artista sembra tornare a confrontarsi in modo diretto, ma dalla sponda ormai assodata delle sue esperienze ‘iconiche’, con la tradizione dell’espressionismo astratto, che del resto aveva avuto un’importanza speciale (mentre tutti volevano rompere con quella stagione) all’avvio della sua carriera, sotto il segno di Motherwell soprattutto.
La conversazione con Jim Dine è avvenuta durante l’allestimento, mentre le muse sgusciavano fuori dagli involucri di plastica; Daniel Olympe Jason Olivier Vincent – la bande-Dine – si davano da fare per comporre il quadro d’insieme; e il maestro si interrompeva per grattare via, o correggere, o ricalcare, una parola al muro, oppure, come un buon operaio dell’happening, per spazzare la polvere dal pavimento.
Dinanzi alle cinque statue volteggianti, piene di nodi e striature, chiedo a Dine di raccontare le circostanze in cui hanno visto la luce, insieme al ciclopico busto-autoritratto.
È un lavoro del 2008-’09. Dal Getty di Malibu mi chiesero, come ad altri artisti, di ispirarmi, in qualche modo, alle opere d’arte antica conservate nella Getty Villa. Fui colpito da un gruppo scultoreo in terracotta, a grandezza tre quarti, greco, di provenienza calabrese. Rappresenta Orfeo che canta, con alle spalle due sirene. Non c’è la lira: è sparita. Mi è sembrata una metafora del fare arte: le muse alle tue spalle, minacciose, e tu che in ogni caso canti: canti il poema, canti la poesia. Le muse, però, sono esemplate su due tanagrine ellenistiche, alte un palmo di mano, ugualmente conservate nella Villa.
Ma già allora l’insieme prevedeva la scrittura alle pareti…
E così ho realizzato The Flowering Sheets, una poesia, per la prima volta, veramente lunga, lunghissima, scritta, appunto, alle pareti…
Leggo: «There sits the string player. / There is despair in his open mouth along with / the beautiful hands of the / Sirens…» (Lì siede il citaredo. / C’è angoscia nella sua bocca spalancata insieme alle / belle mani delle / Sirene).
Per fare poesia ho bisogno della parete perché nella mia vita ho sofferto di dislessia e i caratteri cubitali mi consentono di scrivere con più chiarezza. I fogli a cui mi riferisco nel titolo sono fogli di carta, pagine. «In fiore» perché li ho creati con l’idea che si sviluppassero, crescessero. Il sottotitolo è The Poet Singing: il poeta che canta sono io. Il lavoro l’ho realizzato nel mio studio di Walla Walla, un piccolo paese dove abito nello stato di Washington [ma Dine ha altri due atelier, uno a Parigi Montrouge, non lontano da dove stava Picasso nella seconda metà degli anni dieci, e uno in Germania, a Göttingen]. I fogli di carta in cui ho scritto i versi sono alti circa quattro metri e mezzo e larghi più o meno così [Dine apre le braccia]. Il disegno delle parole l’ho fatto a inchiostro, carboncino e gessetto, per le cancellature ho usato il gesso liquido dell’imprimitura come fosse bianchetto, quando asciugava ci ripassavo sopra. Correggevo continuamente, per poter entrare in intimità con il testo: mi fermavo, prendevo qualcosa da bere, guardavo, e poi ricominciavo. Una volta realizzata l’opera in studio, su carta, io e i ragazzi siamo tornati alla Getty Villa per scriverlo sulle pareti della sala dedicata. È un grande lavoro di grafia collettiva, durante il quale il testo subisce modifiche: si elimina, si riscrive. È qualcosa di organico, potrebbe continuare e continuare, per sempre.
Sul rito della scrittura torneremo, ma adesso vorrei chiederle del suo rapporto con l’arte antica: un capitolo della fascinazione americana per il mondo greco-romano, a cominciare da Twombly…
Le assicuro che, oltre a Twombly, ci sono molti americani, a parte Jim Dine, che hanno una passione per l’arte antica… La mia viene da mia madre, che mi introdusse alla scultura greca: la Venere di Milo, la Nike di Samotracia…
Intervengo per ricordare ai lettori che Dine è autore, ben prima della «Venere degli stracci» di Pistoletto, 1967, del perturbante ‘esercizio’ sulla Nike di Samotracia «Untitled (After Winged Victory)», 1959, assemblage in cotone e stoffa di nylon su armatura metallica.
A Cincinnati, la mia città natale nell’Ohio, esisteva una piccola collezione di teste romane; c’era un trasporto romantico verso l’Antico che io ho assorbito. Dopo la morte di mia madre – avevo dodici anni – ho cominciato un corso di studi incentrato sul latino e il mondo antico: è durato sei anni, ero totalmente incapace, andavo avanti barando, comunque nacque un feeling, un amore profondo per tutto questo. In seguito le mie visite al Louvre o al Metropolitan erano per vedere sculture sia greche che romane. In particolare mi attiravano le sale dei busti degli imperatori e dei senatori: è come se si instaurasse una conversazione tra me e loro, favorita dalla forte carica realistica con cui sono scolpiti.
Un punto di svolta nel suo rapporto con l’Antico è rappresentato, a metà degli anni ottanta, dalle visite alla Gliptoteca di Monaco di Baviera.
Sì, proprio nel 1985 scoprii, per caso, la Gliptoteca di Monaco: fu un innamoramento. Non potevo resistere, dovevo tornare e ritornare, e ho cercato di disegnare dal vivo (perché è concesso) durante gli orari di visita, ma non sopportavo la confusione intorno. In seguito ho trascorso, per dipingere, due inverni a Venezia. Munito di una serie di volumi americani del primo Novecento sulla scultura greco-romana (non ricordo l’autore), trassi dalle riproduzioni dei disegni: su carta e plastica trasparenti, in modo da far passare la luce ed esporli su una lastra fotosensibile, così da ottenere delle fotoincisioni. I disegni li ho conservati, e li ho esposti poi all’Albertina di Vienna: cinquanta circa, ma non grandi, formato A4. In occasione della mostra si fece avanti il direttore della Gliptoteca di Monaco, Klaus Vierneisel, che, venuto a conoscenza della storia, mi invitò a tornare per poter disegnare dal vivo senza essere disturbato. Cosa che feci l’inverno successivo: mi concesse di stare nel museo durante la notte. Il custode giocava a scacchi con se stesso mentre io disegnavo e disegnavo, ma disegni grandi, 1,50 × 1,50 o 1 × 2, realizzati usando diverse tecniche, pastello, carboncino, acquerello e altre ancora. Due mesi di lavoro, poi ho arrotolato i disegni e li ho portati nello studio che avevo allora a Londra, li ho srotolati, appesi alle pareti, e lì ho ricominciato: in tutto, forse, venti disegni di grandi dimensioni, che nel 1990 sono stati esposti prima nella stessa Gliptoteca di Monaco, in mezzo alle sculture greche, e poi alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen.
Copenhagen, perché?
Il direttore di quel museo, vedendo la mostra di Monaco, mi chiese se fossi interessato a trasferirla in Danimarca, e io accettai. Anche la Gliptoteca di Copenhagen è bellissima: vittoriana, piena di charme, con delle magnifiche collezioni. E anche in questo caso ho realizzato dei disegni in situ, ispirandomi alle opere: ma, purtroppo, senza il privilegio delle notti monacensi, ho dovuto lavorare il più in fretta possibile; poi, in studio, aiutandomi con le fotografie, ho disegnato, in sette pannelli, un’Ermafrodito di cui vado molto fiero.
Torniamo alla poesia: fra gli artisti americani del dopoguerra il suo è un caso forse unico perché decise, a un certo punto, di impegnarsi direttamente nella scrittura di versi, e questi versi sono andati ad arricchire la sua idea di arte-vita, di arte in presa diretta.
Per via della mia dislessia, che mi rendeva difficile la lettura, ho sempre preferito leggere poesie, più brevi dei romanzi. La poesia mi attirava… Alla facoltà di Belle Arti dell’università – avevo diciannove anni – il professore di scultura mi fece ascoltare, in vinile, una registrazione di Dylan Thomas che leggeva le sue poesie. Rimasi scioccato, innanzitutto dall’aspetto performativo. Con la sua voce, bellissima, Dylan Thomas faceva cantare le parole: io, in quel momento, ho capito la poesia. Quindi ho iniziato a leggere poesia, a leggere, a leggere… Mi trasferii a New York nel 1958: essere artisti a New York in quegli anni! Eravamo molto vicini ai poeti, poeti della generazione di de Kooning, Pollock, Kline, ma anche poeti della mia generazione. Con i pittori non c’era nessuna competizione: non c’è da fare soldi con la poesia, e in genere i pittori si odiano a causa dei soldi. Con me questi poeti erano di un’estrema gentilezza… Nel 1966, poi, alla Cornell University, dove avevo un contratto di insegnamento, ebbi modo di conoscere Robert Creeley, che mi consigliò di provare a scrivere versi: e cominciai a scrivere. Frequentavo anche B. H. Friedman. Nello stesso anno illustrai la traduzione, fatta da un altro poeta mio amico, Ron Padgett, del Poète assassiné di Apollinaire.
Ma poi c’è Londra, la swinging London, dove la sua voglia di poesia, se mi sono bene informato, trova un set particolare.
A Londra, dove mi sono trasferito con la mia famigliola l’anno successivo, trovai una situazione molto aperta, meno compartimentata che a New York, pittori scrittori e cantanti si frequentavano e si scambiavano esperienze: c’era un buon ‘profumo’. Venni in rapporto con un poeta americano emigrato, Asa Benveniste, un veterano della seconda guerra mondiale: era anche uno stupendo compositore tipografo e aveva una fantastica tipografia, chiamata Trigram Press. Ho stampato con lui un libro di poesie, che ho scritto nel corso di un inverno: il titolo, Welcome Home Lovebirds [ben tornati a casa, piccioncini]. Lo lessi in un reading: a Londra c’erano di continuo readings di poesia, era fantastico. Non mi sono più fermato, per circa tre o quattro anni. Poi sono tornato in America e ci siamo trasferiti in un casale nel Vermont: lì ho cominciato davvero a scrivere. Ma poi ho smesso, quasi istantaneamente: nel 1972-’73. Mi sono detto: «Non sono un poeta. Sono solo un artista. Devo migliorarmi. Lascerò stare la poesia». Non ho scritto per venti anni. Ho solo disegnato e dipinto, dipinto e disegnato, finché non ho sentito che dovevo scrivere. Intorno al 1989-’90 ho ricominciato. Stavo leggendo sempre di più poesia, in particolare la cosiddetta New York School: leggevo Creeley, e John Ashbery, e Frank O’Hara… Dieci anni più grandi di me, questi poeti scrivevano come pittori: ho pensato che, alla rovescia, potevo fare altrettanto, e non ho più smesso.
E che funzione riveste questo scrivere poesie nel suo mondo espressivo?
Non potrei parlare così con il pennello: solo con le parole. Sono molto legato alla lingua americana. Non sono un grande fan dell’America, ma della lingua sì: il modo in cui si è venuta a formare, l’inglese via via arricchitosi attraverso il melting pot… A partire dai dodici anni sono stato cresciuto dai miei nonni, europei di Polonia e di Lituania: parlavano inglese ma non bene. La loro lingua era un assemblage, il loro inglese un collage. Trafficando, pasticciando, mio nonno inventava parole, ed erano fantastiche… era fantastico così: tutto questo ancora mi nutre e rende la mia vecchiaia meravigliosa e piena di vita.
La scrittura in quanto puro segno grafico ed emergenza gestuale la collega direttamente all’esperienza delle avanguardie storiche di primo Novecento: il nome è Francis Picabia (nel saggio in catalogo, Claudio Zambianchi cita giustamente l’«Œil Cacodylate», opera del 1921, «dove peraltro le scritte sono frutto di un lavoro collaborativo dell’artista con i suoi amici»).
Esattamente: Picabia è uno dei miei artisti preferiti. Usa le parole come fossero oggetti. In Morandi ci sono le bottiglie, in Picabia le parole. Da ragazzo, fui colpito dall’utilizzo che Picasso faceva della carta di giornale; fui colpito dal suo Bicchiere di assenzio, con il cucchiaio vero. Come il cucchiaio di Picasso anche le parole, dunque, potevano essere vere: potevo usarle come oggetti. Per me la parola è, innanzitutto, qualcosa di visuale. È il motivo per cui amo tutto questo… [indica l’environment alle sue spalle]: abbiamo scritto, cancellato, modificato, ricalcato tante di quelle volte! Io disegno una parola, una frase, i miei collaboratori ci tornano su, distruggono il mio lavoro, io lo recupero… Questo è il metodo: cancellare, ripristinare. Adoro l’alchimia del fare segni, trasformare la merda in oro. Non voglio essere pretenzioso, ma è un po’ come l’Incarnazione: qualsiasi cosa può essere, qualsiasi cosa… Potrei trovarmi a guidare da qualche parte, nell’Artico, e se mi si obbligasse a creare sul momento, non potrei che scendere dall’automobile, guardarmi intorno e fabbricare qualcosa: tutto riguarda la fabbricazione di qualcosa.
Per il lettore: gli artisti pop coetanei di Jim Dine stabilivano con l’oggetto, prelevato dall’iconografia dei consumi, una relazione distaccata, ironica, cinica. Contemporaneamente si affermava, con il minimalismo, l’idea altrettanto ‘fredda’ di ridurre tutto il mondo visibile a strutture primarie. Dine, come subito segnalò la critica più avvertita, si collegava piuttosto ai «combine-paintings» di Rauschenberg, ai referenti semplici e diretti di Jasper Johns, cioè esperienze che avevano ridato calore estetico all’«objet trouvé», spogliato da Duchamp di ogni significazione.
La domanda: l’oggetto, nella sua arte, si carica sempre di una forte tensione psichica, è sempre chiamato a raccontare qualcosa di intimo e personale.
Sì, la mia è un’arte autobiografica, romantica, apertamente dichiarata. Non so fare l’artista figo, indifferente: ne ho subiti di attacchi da questi fighi, che mi ritenevano un traditore! Per un integralista come Donald Judd, per esempio, io ero una specie di anticristo. Veramente, mi odiavano. Io no, non ci pensavo mai, a loro: non mi preoccupavano minimamente. La loro era un’arte fatta di ambizione e autopromozione politica. Io ho sempre fatto solo quello che dovevo fare. Sono arrivato al mondo e tutto ciò che sapevo fare era alzare con la mano sinistra una matita: tutto qui, non avevo scelta…
Davanti ai «Black Paintings» chiedo a Dine se non si possa parlare di una resa dei conti, finale, ancestrale, con l’espressionismo astratto.
Non c’è molto da dire, perché è tutto lì, sulla tela: ritorno ai padri, agli espressionisti astratti, perché no! In ogni caso ho ormai ottantadue anni e posso dipingere ciò che voglio. Mi fa piacere dipingere così, usare tutta questa materia, mischiarla con la sabbia e con la ghiaia: aggiungo sabbia, la faccio accumulare, poi la elimino con macchine levigatrici, con utensili elettrici… A questo punto della mia vita voglio spingere il piede sull’acceleratore, andare il più velocemente possibile: e non mi preoccupa come andrà a finire. Il mio lavoro era molto iconico, ma anche da questi quadri non è che sia scomparsa la figurazione, è solo poco riconoscibile. Comunque, anche senza il «cuore» e senza il «Pinocchio», sempre di Dine si tratta. E in ogni caso non c’è da dipingere niente in particolare, ma da dipingere qualcosa, e sta al fruitore ricavarne un significato. Che cosa sia questo qualcosa non lo so bene, spero solo che chi guarda ne sia nutrito emotivamente come lo sono io. Uno dei miei eroi, da sempre, e già da ragazzino, era Alberto Burri. Burri l’ho sempre tenuto in mente: la fisicità dei sacchi, come li cuciva… Io anche volevo sentire la fisicità, il mio corpo: volevo offrire il mio corpo…
Ha detto Burri, ma nel suo pantheon ci sono anche Giorgio Morandi e Alberto Giacometti: come le parlano? che cosa le dicono?
Morandi, è rimasto talmente fedele all’ossessione! Non mi riferisco all’ossessione del soggetto, ma a quella della pittura: il suo dipingere senza sosta, con bellissima semplicità. Per me Morandi ha rappresentato una grande ispirazione anche perché sono un incisore. Ho visto una volta, in una casa veneziana, una sua incisione di bottiglie: ma non erano bottiglie, erano qualcosa di più! Lui aveva un rapporto romantico con i materiali: nel suo uso dell’inchiostro c’erano delle imprecisioni, secondo me usava troppo olio, ma in questo modo otteneva intorno a ogni tratto una specie di alone che… era talmente umano: sì, ecco, ho l’impressione che fosse un grande umanista. La stessa cosa per Giacometti: osservava sempre con molta attenzione, soffriva perché non gli veniva bene, non riusciva a spingere il segno dove voleva lui, cancellava in continuazione… E tutti questi sforzi nelle sue opere si vedono. A me piace l’idea che le difficoltà vengano mostrate, che ne restino le tracce. Rifiuto l’arte sterilizzata: voglio vedere tutto, voglio vedere le mutande.
(traduzione di Julia MacGibbon)