Ogni viaggio un tassello per ricostruire la (apparente) parabola territoriale e narrativa dello Stato islamico, dalla presa di Raqqa e Mosul fino all’uccisione del «califfo» Abu Bakr al-Baghdadi. A percorrere i luoghi, fisici e virtuali, della scalata dell’Isis alla galassia islamista contemporanea è Marta Serafini, giornalista del Corriere della Sera nel suo L’ombra del nemico. Una storia del terrorismo islamista (Solferino Libri, pp. 240, euro 16,50).

DALLA SIRIA ALL’IRAQ, passando per Turchia e Afghanistan, Serafini cuce insieme i pezzi del complesso puzzle che è l’ascesa del jihadismo 2.0 con cui lo Stato islamico ha rivoluzionato la più tradizionale natura della madre tradita, al Qaeda. Lo fa attraverso i suoi viaggi e parlando con chi per primo è stato vittima della foga fanatica del progetto Isis: i rifugiati, gli sfollati, le donne rapite, stuprate e vendute al mercato delle schiave, le mogli e i figli di chi ha fatto sua la chiamata al jihad di al-Baghdadi. Gli ultimi. Quelli dimenticati dalle cronache internazionali, bypassati dai microfoni seppur con le loro storie riescano a definire l’antropologia culturale, sociale e politica del fenomeno terrorista.

UN PERCORSO che non è solo geografico ma anche virtuale, dentro la propaganda online e i suoi strumenti più attraenti, che l’autrice ricostruisce attraverso la storia di Maria Giulia, italiana convertita alla fede verso lo Stato islamico, ribattezzatasi Fatima e a cui nel 2015 Serafini dedicò un libro. È così che la giornalista entra nel cuore dell’Europa: prova a dare una spiegazione alla radicalizzazione dietro gli attentati, dalla redazione di Charlie Hebdo all’aeroporto di Bruxelles, e al concetto di «nemico», facile da ideologizzare, più difficile da studiare nelle sue aree grigie. Ed entra, con il proprio corpo, dentro l’altra enorme conseguenza delle guerre europee, lo sfruttamento del sud mondo e la radicalizzazione jihadista: le migrazioni, estenuanti e disperati viaggi attraverso il Mediterraneo. Sulle navi delle ong Serafini può tracciare i contorni del «non-nemico», migliaia di invisibili definiti «emergenza», e quelli del «nemico», i reali push factor.

IL LIBRO È UN GRANDE reportage che conduce nei luoghi simbolo della propaganda jihadista, come l’hotel Niniveh di Mosul, nei campi profughi da Moria al Kurdistan iracheno, sull’Aquarius. Ovvero nei luoghi che hanno trasformato le vite di milioni di iracheni e siriani, mandando in frantumi società multietniche e multiconfessionali e creando fratture invisibili nella millenaria storia di convivenza mediorientale.
Ed è, anche e soprattutto, un tributo appassionato a quello che è sempre stato celebrato come il mestiere più bello del mondo, il giornalismo sul campo, annichilito da scelte finanziarie ed editoriali e da facili narrazioni a distanza. Una lenta sparizione che colpisce – ricorda nelle ultime pagine l’autrice – le donne, vittima di un sessismo editoriale strisciante seppur siano da tempo buona parte dei corpi in prima linea, lo scudo alla disinformazione nelle aree più tragiche dell’oggi.