Alessandro Berti, Premio Riccione per l’Innovazione drammaturgica 2021, fa teatro indipendente da trent’anni. Artista da sempre appartato e «imprendibile», scrive e mette in scena testi che sono un affondo concreto, mai pacificato, in questioni che incendiano il nostro presente. Dopo la trilogia Bugie bianche, dedicata al rapporto tra maggioranza bianca e minoranza nera nelle società occidentali, a marzo ha presentato il suo nuovo lavoro Le vacanze all’Arena del Sole di Bologna, ambientato in un futuro imminente attanagliato dalla crisi climatica. L’abbiamo intervistato dopo il debutto.

Nella tua iniziazione teatrale ci sono (anche) Viviani e Leo De Berardinis.
Da giovane, bazzicando tra i libri usati, trovai il Teatro di Viviani. Ebbi una folgorazione totale per quella carnalità sulla pagina: il ritmo, quell’immissione popolare risuonavano nella mia storia. Ho passato l’infanzia con mia nonna mondina, con le sue canzoni, i racconti. Il mio primo spettacolo, Skankrer, è un’invettiva in dialetto. Il coraggio di scriverlo in quel modo l’ho imparato da Viviani e da Leo, conosciuto a Bologna nel ’95. Con Michela Lucente, appena usciti dallo Stabile di Genova, fondammo la compagnia L’impasto. Costruimmo un piccolo teatro nel bagno di una scuola occupata. Qui, tra candele, in forma di rito, facemmo il primo studio di Skankrer. Leo lo vide, ci invitò in via San Vitale e ci prese sotto la sua ala.

I protagonisti de «Le Vacanze» sono due adolescenti che vivono in una ex pianura diventata deserto. Com’è nato il testo?
L’idea è venuta nel primo lockdown, in quella simulazione di futuro. Da anni studio le tematiche legate al cambiamento climatico. Non avevo mai osato portarle a teatro. Oggi, con la siccità che avanza, gli incendi, l’infertilità dei suoli, la mia non è una scrittura del futuro ma del presente. L’antropocene è un «iperoggetto», citando Timothy Morton: difficile da guardare in faccia come guardavamo qualcosa nel ‘900. Questo non significa che non dobbiamo guardarlo. Io ci provo, situandolo in un piccolo podere emiliano tra qualche anno, in un bambuseto con dell’acqua argillosa che è il massimo lusso che due ragazzi possono concedersi dopo la maturità. Facciamo fatica a proiettarci nella vita dei ragazzi pakistani che dopo ennesima alluvione si mettono in viaggio verso Europa. Invece pensare che il nostro podere, l’unica cosa che ci hanno lasciato i genitori, perde completamente di valore, è più scioccante: improvvisamente ci risveglia e ci connette con qualcosa che riguarda già milioni di persone.

Strano che a occuparsi di crisi climatica, che sembra non preoccupare nessuno, sia un drammaturgo. Il teatro può cambiare la realtà? Cosa ti aspetti dal pubblico?
Sono cresciuto in un contesto familiare in cui della serietà delle questioni politiche e sociali delle cose che accadevano si poteva e si doveva parlare. Credo molto nel rapporto tra fare e pensare, estetico e etico. Mi sono formato con Capitini, Chiaromonte, Danilo Dolci. Figure che mi aprivano possibilità inedite, meno conformiste, più libere di intervento sociale attraverso l’arte, o di arte politica, ma non ideologica che si auto censura per non disturbare. Non sono molto umile: mi aspetto una piccola rotazione della coscienza all’interno dello spettatore, ambisco a niente meno di questo.

Mi racconti l’esperienza di Casavuota?
È stato – abbiamo chiuso durante il covid – un tentativo nel centro di Bologna, a due passi dalle istituzioni culturali ufficiali, di animare un luogo con scrittori, attori, danzatori che venivano a confrontarsi su un tema assieme a una piccola agguerrita platea. In un soggiorno di 40 metri – nello stesso palazzo che ospitava uno SPRAR – avevo messo il parquet, dei pannelli fonoassorbenti, si riusciva anche a fare piccoli spettacoli. Dopo si cucinava e mangiava tutti insieme. Qualcuno ci chiamava illegali, mi fa ridere che non si usi l’aggettivo indipendente. È durato dal 2017 al 2020. Stiamo cercando un altro posto. Sentiamo il bisogno di un luogo così fertile dal punto di vista della costruzione di un pensiero insieme ad altri. Lo spazio nei teatri ufficiali c’è, ma manca quella parte vitale di scambio informale.

Come vedi la drammaturgia contemporanea in Italia?
Torniamo all’inizio, a Viviani, alla sua scrittura incarnata, specchio di una vita, di una società, di una comunità. C’è poca scrittura così: verace, non laccata, che sia «resoconto di esperienza». Essere capace di ascoltare la voce che si ha dentro, non ripetere qualcosa solo perché funziona: è fondamentale mantenere quest’indipendenza, questa coscienza vigile, una coerenza tra quel che si dice e quel che si fa. Per me la scrittura non è mai programmatica, non m’interessa catechizzare qualcuno su un tema, ma pormi delle domande. Questa cosa però non la si può far arrivare dalle aule universitarie: deve nascere dal basso.