Non al talento ma alla «ostinazione», non a una supposta dote naturale bensì a un elevato quoziente di «autortura» Philip Roth riteneva di dovere l’esistenza dei suoi libri, prima ancora del loro successo. Quando all’età di settantasette anni, con trentuno volumi alle spalle e un posto di primo piano nel canone occidentale, decise di mettere fine alla sua attività di scrittore, una motivata incredulità accolse la sua dichiarazione di cedimento alla stanchezza, la sua resa alle «frustrazioni quotidiane» non più sorrette dalla «vitalità intellettuale», dalla «energia verbale e dalla forma fisica necessarie per sferrare e condurre a termine un attacco creativo su larga scala a una struttura complessa ed esigente come quella del romanzo».

Ora, queste parole si trovano nella raccolta dei meravigliosi scritti di nonfiction (alcuni inediti in italiano, altri già antologizzati in due libretti einaudiani del 2004, Chiacchiere di bottega e del 2011, Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno ovvero, guardando Kafka) nel volume titolato Perché scrivere? Saggi, conversazioni e altri scritti 1960-2013 (traduzione di Norman Gobetti, Einaudi, pp. 451, euro  22,00), che esce in contemporanea con il secondo Meridiano delle opere di Roth, a cura di Paolo Simonetti (traduzioni di Vincenzo Mantovani e Stefania Bertola, Mondadori, pp. 1888, euro  80,00), una occasione per rileggere, a distanza di decenni, alcune delle opere più amate dello scrittore americano: Patrimonio, Operazione Shylock, Il teatro di Sabbath, Pastorale americana, corredate da note ai testi redatte con grande accuratezza, e la bibliografia (di Elèna Mortara) che permette di tallonare la vita di Roth, confrontandone i passaggi con quelli stravolti dalla inventiva dei suoi romanzi.

Proprio la rilettura (a oltre vent’anni dall’uscita) di Pastorale americana, emancipati dallo stupore iniziale, consente di immergersi in quella che deve essere stata la speciale sofferenza di Roth nell’intonare la voce di un personaggio che, diversamente da tanti altri e soprattutto dai suoi alter ego, nulla condivideva della sua biografia, aspirazioni, stati d’animo, acrobazie lessicali, fantasie, spirito di dissacrazione, nulla: quel Seymour Levov detto lo Svedese, che era stato una mitica apparizione della giovinezza di Nathan Zuckerman.

A cinquant’anni di distanza, quando dietro sollecitazione dello Svedese i due si rincontrano, Zuckerman – dopo essersi invano aspettato una rivelazione che motivi quella richiesta di parlarsi, riflette sulla affabilità dell’altro, frutto evidente di un baratto con la sua anima inesistente: «Quest’uomo – si dice – non può essere incrinato dal pensiero. Ecco il mistero del suo mistero».

Frutto della ruminazione di un ventennio, questo romanzo concepito e abbandonato più volte, è forse il più amato di Roth sebbene non altrettanto letterariamente virtuosistico di altri (per esempio La controvita) ma soprattutto esemplifica al meglio ciò che l’autore ebbe a dire in una intervista allo «Svenska Dagbaladet», ora raccolta nel volume einuadiano: non nelle opinioni dei personaggi vanno ricercate le idee dell’autore bensì «nella situazione che ha inventato per loro». E così, la genialità di Roth in Pastorale si estrinseca appunto nella cornice in cui situa i diversi caratteri: lo Svedese è l’orgoglioso, bellissimo, integerrimo ex marine innamorato della sua America, che ha raccolto degnamente l’eredità del laborioso genitore guantaio, proprietario di una fabbrica di eccellenza da cui deriva la recente prosperità della famiglia Levov. Tutto nella sua vita, compresa la moglie, ex Miss New Jersey pudicamente riluttante nel vantare quella datata celebrazione della propria bellezza, sembra aderire alla fede dell’uomo probo che crede nella perfezione, non fosse per Merry, la figlia balbuziente che all’età di sedici anni sparirà dalla vita pubblica, dopo avere piazzato una bomba nell’ufficio postale cittadino, uccidendo una persona.

Una lunga gestazione
Non allo Svedese, tuttavia, Roth affida il racconto del suo dramma, e non quando ci si sarebbe aspettati di ascoltarlo, bensì al fratello, l’arrogante cardiochirurgo Jerry, traboccante disprezzo per la sua famiglia di provenienza, che ne parla a Zuckerman in occasione di un ritrovo di ex allievi della scuola che entrambi hanno frequentato a Newark. Lo Svedese è ormai morto, la sua immagine imbozzolata nella malintesa considerazione di Nathan si impossessa della sua fantasia e comincia a parlare per lui: «Sognai una cronaca realistica». E parte la storia.

Ogni singolo dettaglio, nell’evoluzione di questo romanzo datato 1997 ma le cui prime settanta pagine manoscritte risalgono al 1972, porta i segni di una elaborazione che si indovina, anche grazie alle poche parole spese in proposito da Roth, persino persecutoria nella sua ricerca di perfezione. «Cominciare un libro è sgradevole» – ha detto nella intervista alla «Paris Review» raccolta in Perché scrivere? «Batto a macchina degli incipit e sono orrendi, sembrano un’inconsapevole parodia del mio libro precedente, più che l’imbocco di una nuova direzione, che è quello che vorrei… Spesso devo scrivere un centinaio di pagine, o anche di più, prima che venga fuori un paragrafo che sia vivo».

In realtà, stando a un altro sketch biografico raccolto nella antologia einaudiana, «Sugo o salsa?» – sul quale anche Paolo Simonetti richiama l’attenzione nel suo saggio introduttivo al Meridiano («una pietra miliare imprescindibile – scrive – … sulla quale convergono tutti i motivi centrali della sua narrativa») Roth avrebbe trovato sul tavolo della caffetteria che frequentava abitualmente nella Chicago del ’56, un foglietto di carta con una sequenza di frasi senza nesso, frasi che tuttavia lo irretirono al punto da trasformarsi, ognuna, nell’incipit dei suoi diciannove romanzi a venire: «mentre finge di interpretare retrospettivamente la propria opera – commenta Simonetti – Roth getta i semi della sua decostruzione critica».

Era la tarda primavera del 1993 ed era appena uscito uno dei suoi romanzi più godibili, Operazione Shylock, il cui sottotitolo è Una confessione, preteso resoconto di fatti realmente accaduti, come lo stesso Roth si premura di assicurare nella sua Prefazione, dove spiega come tutto derivi dall’essere stato assoldato dal Mossad per una operazione di controspionaggio.

L’anno in cui ambienta la trama, il 1988, è – probabilmente non a caso – lo stesso in cui scrisse in forma di lettera a Zuckerman la sua romanzesca biografia titolata I fatti, e di due anni prima è l’intervista a Primo Levi, ennesimo tassello di quel suo interesse per la causa ebraica trasformato in motore di pagine sarcastiche, tra le più memorabili di Roth. Qui, in Operazione Shlylock, quasi interamente ambientato a Gerusalemme, sono in scena due personaggi con lo stesso nome, Philip Roth, il secondo dei quali è un impostore che ha fatto propri i successi editoriali del primo allo scopo di accreditare la causa del «diasporismo», un programma politico finalizzato a riportare gli ebrei israeliani nei paesi europei dai quali erano emigrati, per scongiurare la minaccia araba di un secondo Olocausto.

Come ricorda Paolo Simonetti nella sua nota al romanzo, Operazione Shylock ebbe una accoglienza controversa: John Updike lo considerò datato e, per quanto spumeggiante, troppo carico di monologhi e interviste affastellate su un impianto debole, mentre Cynthia Ozick e Harold Bloom lo recensirono entusiasticamente e Saul Bellow lo inserì nel corso sugli scrittori contemporanei che teneva alla Boston University.

«Per me il lavoro, il lavoro della scrittura, consiste nel trasformare la follia dell’io in follia del lui», aveva detto Roth dieci anni prima a proposito di un personaggio che compare nella Lezione di anatomia, e questa considerazione sembra in effetti trovare in Operazione Shlylock uno dei sui vertici espressivi. Quanto alla sua personale interpretazione della questione ebraica, con relative accuse di diffamazione e conseguenti reprimende, più volte Roth si è dato l’occasione per chiarire le impopolari idee che coltivava al riguardo: «Per come la vedo io – ha scritto in «Immaginare gli ebrei» (ora nel volume einaudiano) – l’obiettivo del romanziere ebreo non è forgiare nella fucina della propria anima la coscienza ancora increata della sua razza, ma trovare ispirazione in una coscienza che è stata creata e demolita centinaia di volte solo in questo secolo». È un compito al quale Roth si è dedicato con effervescente irriverenza, e proprio nella esuberanza di uno stile che incorporava «i ritmi, le sfumature e l’enfasi del modo di parlare delle città con le loro folle di immigrati», ha trovato – a suo dire – il massimo piacere che la letteratura gli abbia concesso.

Le imprese di un burattinaio
Più ha calcato la mano, più ha strafatto, più ha sfidato il possibile, e più stellari sono stati i suoi risultati: solo un controllo spasmodico degli eccessi, di ogni sillaba della lingua messa in bocca ai suoi personaggi, gli ha garantito l’immunità da qualsivoglia caduta di stile. Ne è un esempio folgorante la prosa del Teatro di Sabbath (ora nel secondo Meridiano), di cui è protagonista un burattinaio messo a riposo dalla artrite deformante prima e dalla cacciata dal College dove insegnava poi, a causa delle molestie sessuali perpetrate ai danni di una studentessa. In lutto per la morte prematura della amante serbo-croata Drenka Balich, il burattinaio incarna al meglio delle sue virtualità espressive il Jewish Mischief, ovvero l’arte ebraica del dispetto, della birichianata, che innalza – scrive Simonetti – a «modello comportamentale, filosofia di vita, quasi una religione personale».

Roth si dedica al romanzo in gran parte al ritorno da un breve ricovero presso l’ospedale psichiatrico di Silver Hill nel Connecticut, una esperienza che ricorderà come letteralmente terrificante. Non a caso, quando nel 1995 lo presenterà ai suoi lettori, prima di leggerne alcuni brani ne parlerà come di «un libro in cui imperversa lo sfacelo, imperversa il suicidio, imperversa l’odio, imperversa la lussuria. In cui imperversa la disobbedienza. In cui imperversa la morte». All’uscita del romanzo, Frank Kermode gli dedicò una lunga analisi sulla «New York Review of Books» giudicandolo «straordinario», «un libro splendidamente perverso».

Il memoir dedicato al padre
Di tutt’altra natura, una natura del tutto eccezionale nella produzione di Roth, che considerava vantaggioso avere qualcosa o qualcuno da odiare per fornire combustibile ai suoi libri («uno scrittore deve infuriarsi per potere vedere») è il commosso memoir dedicato al padre nel 1991, sotto il titolo Patrimonio, ora anch’esso nel secondo Meridiano. Reduce da uno dei periodi più difficili della sua vita, lo scrittore americano segue passo passo la malattia di Herman Roth, il padre assicuratore che grazie al suo lavoro porta a porta per le strade di Newark aveva maturato una capillare conoscenza della città, poi raccoglie le sue considerazioni sottotitolando il libro Una storia vera, e si presta, per la prima e unica volta nella sua carriera, a condividerle con il pubblico, impegnandosi in una lunga torunée di reading.
Quale distanza emotiva, quale radicale straniamento dalla sua condizione di figlio amorevole, Roth dovesse guadagnare a sé per calarsi nei godibilissimi passaggi dei romanzi in cui Zuckerman riceve lettere esilaranti dal padre, o lo Svedese di Pastorale subisce l’indignazione del genitore ebreo di fronte alle pretese religiose della sua futura moglie cattolica (a proposito dell’eucaristia, da concedere o meno al futuro nipote: NON VOGLIO FAR DECIDERE A UN BAMBINO SE VUOLE O NON VUOLE MANGIARE GESÙ) è una delle implicite rivelazioni di Patrimonio. Più tardi, in una intervista alla «U.S. News & World Report» dell’11 febbraio 1991 (non contenuta nel volume einaudiano, ma riportata da Paolo Simonetti nelle sue Notizie sui testi) commenterà, a sigillo delle tante conversazioni avute con i medici e con il padre: «La sua morte non è avvenuta nell’universo delle parole». Come a denunciare, proprio lui, i limiti del linguaggio nel rendere conto dell’esperienza. Wittgenstein non sarebbe stato d’accordo, ma Roth se ne sarebbe fregato.