Non so quale caso mi abbia fatto imbattere nel libro di Livia Manera Sambuy, di cui venni a sapere grazie a una recensione sbirciata di fretta, e il cui titolo, Non scrivere di me (Feltrinelli, pp. 206, euro 16,00) mi avrebbe fatto pensare a un romanzo distogliendomi dal prenderlo in mano (non mi occupo mai di scrittori italiani). Rischiavo dunque di ignorarlo, e di perdermi, perciò, una lettura per me così emozionante da indurmi a sfidare il divieto autoimposto, e quasi mai violato, di scriverne in prima persona.

Accedere a un impasto vibrante di ricordi personali, descrizioni fisiche, dialoghi sui fatti della vita, commenti ai libri, resoconti di luoghi, memorie di aspettative, delusioni, gratificazioni, montato come una sorta di docu-fiction timidamente sbilanciata oltre il pudore di racconti che si indovinano filtrati a stento nella scrittura è stato per me – allevata nel credo strutturalista per cui solo gli ingranaggi del testo contano e la volontà dell’autore non è rilevante (ammesso e non concesso che l’autore abbia dignità di esistenza) – come mettere le dita nella marmellata.

Rileggerò, se appena ne avrò il tempo, questo libro che così godibilmente si abbandona a ciò che non mi sono mai concessa – le descrizioni di ambiente, gli abbozzi fisiognomici, i ricordi personali, le congetture sul carattere – – sempre scegliendo autori sulla cui bravura concordo, e che credevo disposti a discutere rigorosamente e indefettibilmente solo dei loro libri, mentre ora li scopro malleabili a lasciarsi penetrare fino a mostrare parti di sé non immediatamente visibili, a volte decisamente inimmaginabili. Tra loro c’è Mavis Gallant, incontrata da Livia Manera quando aveva ottantadue anni e a lungo frequentata, nonostante il suo carattere proverbialmente difficile: compare tra queste pagine restituita da uno sguardo interrogante simile a quello che la scrittrice stessa rivolge ai suoi personaggi, «con l’impudenza di un bambino che scruta e analizza». E c’è David Foster Wallace, molto diverso da come lo ricordo e tuttavia perfettamente riconoscibile, gentile e scostante al tempo stesso, che dà appuntamemto a Livia Manera nel McDonald’s di una stazione di servizio su una autostrada a due ore da Chicago. Poi l’incontro, tra i più emotivamente coinvolgenti, con Joseph Mitchell, che al tempo in cui Manera lo incontrò da trent’anni non pubblicava più nulla, ma in America era comunque famoso come autore di «storie ordinarie di giornalismo straordinario»: pare che non usasse il telefono e raggiungesse sempre a piedi i derelitti a cui dava appuntamento, perché costituivano i suoi soggetti preferiti. Andando – scrive Livia Manera – «si portava dietro un cuore».

Lungo e appassionante, il resoconto degli incontri con Richard Ford restituisce precisamente il ritratto di un uomo impulsivo nel cui animo convivono forze contrastanti, virilità vecchio stile e una «forma di grazia autentica ma anche ricercata, quasi una correzione che lui stesso sembra imporre alla propria natura sanguigna». Deve essere, è evidente, una persona che induce fiducia Livia Manera, di certo perché dimostra di conoscere i libri di chi va a intervistare; e sembra quasi che una volta accertata questa ineludibile premessa, gli scrittori da lei incontrati siano poi felici di parlare d’altro, riandando a fatti della vita vera forse più attrenti ancora di quelli immaginati, quei fatti dai quali la mia pratica di intervistatrice mi tiene rigorosamente lontana, irretita dal dogma secondo il quale un autore dovrebbe scomparire dietro la sua opera.

Per la fortuna dei suoi lettori Livia Manera non la pensa così: non sapremmo nulla, altrimenti, di una autrice schiva come Paula Fox, il cui doloroso passato affollato di abbandoni solo tardivamente ha trovato un riscatto nella scrittura, allargando i limiti di ciò che il suo sguardo allenato alla disperazione sapeva mettere a fuoco, e convertendo in mirabili esercizi narrativi quelle che per altri sarebbero state soltanto devastanti esperienze di perdita. E non sapremmo quel poco che Philip Roth ha lasciato filtrare di se stesso se non lo avesse raccontato, in due documentari e tanti incontri riportati nel suo libro Livia Manera, molto prima che la giornalista americana Claudia Roth Pierpoint ne scrivesse la biografia autorizzata, e quando ormai tanti anni separavano l’autore di Pastorale americana dalla necessità di mascherare i suoi sfoghi indirizzando al proprio alter ego Nathan Zuckerman una ingannevole versione dei Fatti. Ora che le sue controfigure sono state congedate e l’addio alla scrittura felicemente consumato, Philip Roth resterà nel ricordo di chi non si accontenta dei suoi libri anche grazie alla decisione di contraddire la raccomandazione che inizialmente rivolse a Livia Manera: «Non scrivere di me».