Con la pubblicazione prima della trilogia composta da Benedizione, Canto della pianura e Crepuscolo, poi di Le nostre anime di notte, scritto poco prima di morire, straordinario ritratto di una coppia di anziani e del loro amore tanto puro quanto contrastato, Kent Haruf ha progressivamente acquisito la forza dirompente di un vero e proprio caso letterario, conquistando critici e lettori e assumendo il ruolo di capofila di una nuova tendenza, editoriale più che letteraria. Una tendenza , basata sul progressivo spostamento dell’attenzione e dell’interesse dall’ipermodernità degli scrittori americani a vocazione metropolitana al doloroso rigore di esistenze profondamente legate al paesaggio naturale delle grandi pianure, o del Sud più reietto e dimenticato.

Ad accomunare le tante storie che si intrecciano nella trilogia di Haruf è una rigida unità di luogo: per tutti e tre i romanzi che la compongono, come anche nel caso de Le nostre anime di notte, non ci si muove mai dalla piccola contea di Holt, nel Colorado: luogo immaginario, ma al contempo dimostrazione estrema dell’assunto melvilliano secondo il quale i posti più veri non si trovano mai sulle carte geografiche. Holt e la sua contea tornano adesso nel romanzo che si può considerare l’antesignano delle grandi storie che hanno segnato la piena maturità artistica ed espressiva di Haruf.

Alle origini di Holt
Pubblicato negli Stati Uniti nel 1984 (quindici anni prima, quindi, di Canto della pianura) con il titolo originale The Ties That Bind – identico, che sia o meno una coincidenza, a quello della prima traccia di The River, doppio album capolavoro di Bruce Springsteen –, il romanzo di esordio di Haruf ci viene proposto dal suo editore italiano, NN, con il titolo Vincoli, nella traduzione, davvero eccellente, di Fabio Cremonesi. Il sottotitolo, Alle origini di Holt, è presente nella sola edizione italiana, ma appare sensato e condivisibile. Non solo perché Vincoli rappresenta a tutti gli effetti il germe, non ancora pienamente maturo ma già ricco e potente, dei romanzi della maturità, ma perché la storia stessa, riportandoci indietro nel tempo alla fine dell’Ottocento, coglie nel suo formarsi la comunità che i lettori di Benedizione hanno imparato ad amare, e che aveva nei due fratelli McPheron, contadini e allevatori, bisbetici e strambi quanto umani e generosi, le figure forse più ricche e affascinanti.

La storia – come ricorda Cremonesi nella breve nota al romanzo – parte da un antefatto quasi noir: una donna che ha superato gli ottant’anni, Edith Goodnough, viene ricoverata in ospedale in condizioni precarie; lo sceriffo di contea, Bud Sealy, la prende di mira per un qualcosa di non meglio precisato che sarebbe accaduto tra la stessa Edith e suo fratello Lyman; un giornalista che arriva dalla capitale, Denver, a caccia di notizie, avvicina la voce narrante del romanzo, Sanders Roscoe, nel tentativo di carpirgli il maggior numero possibile di informazioni, venendo però cacciato in malo modo.

L’incipit, nella sua secchezza, sembra già un manifesto dello stile di Haruf e della dichiarazione di poetica affidata, poco prima di morire, a «DenverCenter»: «Voglio pensare di aver scritto quanto più vicino all’osso che potevo. Con questo intendo dire che ho cercato di scavare fino alla fondamentale, irriducibile struttura della vita, e delle nostre vite in relazione a quelle degli altri». La voce di Sanders Roscoe si sintonizza, fin dalle prime righe, con una rude essenzialità dalla quale non deroga mai, piegando al rigore dello sguardo e del racconto quella dimensione orale, da chiacchierata intorno a un fuoco, che il romanzo ben presto assume. Queste le prime parole di Roscoe: «Edith Goodnough non vive più in campagna. Ormai sta in città, in ospedale, in quel letto bianco, con un ago infilato nel dorso della mano e un uomo che la sorveglia in corridoio, fuori dalla sua stanza».

Cosa sia accaduto veramente tra Edith e suo fratello Lyman lo sapremo solo molto più avanti. E solo molto più avanti capiremo perché lo sceriffo Sealy abbia preso di mira proprio una donna anziana, e soprattutto perché sia convinto di poter «utilizzare» Edith per guadagnarsi l’ennesima rielezione. Prima la voce di Sanders avrà tutto il tempo e l’agio di riportarci indietro nel tempo al giorno in cui Roy Goodnough, il tirannico padre di Edith e Lyman, era giunto in Colorado insieme alla moglie Ada dall’Iowa, attratto dalla prospettiva di divenire proprietario terriero, per ritrovarsi davanti agli occhi la desolazione di un paesaggio sterile e monotono: una campagna che «era sabbiosa ed era arida e perlopiù era piatta, con qualche bassa collina di sabbia che si perdeva a nordest, verso la regione del Nebraska Panhandle. Praticamente non c’erano alberi».

In queste desolate badlands si consumerà il dramma della famiglia Goodnough: la nascita prima di Edith, poi di Lyman; la morte di Ada, consumata dal doppio parto e da una vita di stenti e fatiche; il rapporto carico di ostilità e di sospetti con gli unici vicini di casa, Hannah Roscoe e il figlio John, del quale Edith si innamorerà scontrandosi contro l’inflessibile rifiuto paterno; l’incidente – descritto con la stessa brutalità ed esattezza di dettagli che i lettori di Haruf hanno già imparato a conoscere dalle scene di macellazione di Canto della pianura – nel quale Roy perde tutte le dita delle mani fuorché un mignolo, condannando così entrambi i figli a rimanergli accanto fino alla morte.

Giorni crudeli
Se la trilogia era la storia di una comunità ormai consolidata, dei suoi rituali collettivi, del pellegrinare costante dei personaggi attraverso pianure squassate dal vento e dalle intemperie, nella certezza di trovare tuttavia sempre un riparo, o un pasto caldo, Vincoli è una storia di pionieri, raccontata senza la minima concessione al romanticismo o alla retorica western. Dopo la sequela di morti e mutilazioni delle prime pagine, che sembra confermare una vocazione quasi noir dell’autore, il quinto capitolo si apre con questo memorabile passaggio: «Quanto fa 365 per 20? Qualcosa più di settemila, giusto? Be’, ecco quanto è durato. Ecco quanti giorni è durato. Per oltre settemila giorni, per almeno vent’anni, ai Goodnough non successe niente». È allora in questo nulla, in questo susseguirsi di giorni «che devono essere sembrati crudeli come partorire un bambino morto», tanto appaiono monotoni e inutili, che la voce di Sanders si fa spazio, nello sforzo disperato di restituire a Edith in primo luogo – ma anche a Lyman e a suo padre, John Roscoe – quella dignità che la legge vuol togliere a tutti loro.

Il fascino di Vincoli sta proprio in questa sfida che sembra quasi volutamente antinarrativa; nell’intenzione programmatica di sottrarre all’oblio vite che dell’oblio stesso sono state schiave, o che hanno tentato di ammantarsene. Se l’esordio di Haruf è ancora lontano dalla rotondità e dal perfetto controllo stilistico delle opere più mature, c’è nella sua asprezza senza sconti, nella sua rabbiosa empatia, tutta la forza e l’energia ancora fuori regime di un autore destinato alla grandezza.