Leggere romanzi, per me, non era possibile durante il Covid. Leggere significa attivare il cervello, producendo una valanga di pensieri, un’orribile cascata di angosce. Non facevo che prendere dei libri e rimetterli giù, incapace di concentrarmi, o peggio, contagiata all’improvviso dalla sensazione di espansione del romanzo. Volevo che il mio cervello restasse chiuso. Cucinavo. Giocavo ai videogames. Guardavo stupidi e brutti film.

PERCHÉ LEGGIAMO? Sicuramente c’è qualcuno che lo fa per evasione, per intrattenimento. E altri per cui leggere è un’emozione controllata, come le montagne russe. Non c’è niente di male in questo genere di lettura: da bambina, io praticamente non facevo altro. Ma è evidente che la letteratura significhi qualcosa di più che semplicemente passare il tempo.
Ci piace elaborare teorie sulle sue funzioni e benefici. La creazione e la diffusione dell’empatia sono alla base di un’accreditata teoria recente. Si sostiene che se riusciamo a vedere l’intensa vita interiore di qualcuno diverso da noi, impareremo a considerare gli stranieri – anch’essi, per definizione, diversi da noi – e la loro intensa vita interiore.
Non sono l’unica persona che trova questa idea bizzarra, semplicistica e agghiacciante. Nel suo saggio La banalità dell’empatia, la brillante accademica e autrice di romanzi Namwali Serpell definisce questa idea uno «stereotipo senza senso». Lo psicologo Paul Bloom sostiene che l’empatia è «faziosa» e «miope». In definitiva, leggere un libro non è come mettersi nei panni di un’altra persona, e anche se lo fosse, non sarebbe necessario per sapere che ha un’intensa vita interiore, e che merita dignità, felicità, e così via.
Mi viene in mente un luogo comune della politica americana, per cui quelli che votano per il partito conservatore disprezzano, per esempio, l’idea dell’assistenza sanitaria universale, finché non sono loro stessi a ritrovarsi in un mare di debiti per via delle spese mediche; o disprezzano le persone gay finché non sono i loro figli a confessare di esserlo.

QUANDO SONO COINVOLTI in prima persona o lo sono quelli che amano, si scoprono all’improvviso in grado di mettersi nella prospettiva dell’altro. Queste storie sono sempre considerate toccanti, ma in realtà sono funeste – l’idea che nessuno meriti nulla di cui tu stesso non abbia bisogno o non capisca personalmente.
Credo, quindi, che la creazione dell’empatia non sia lo scopo della letteratura. Se è un effetto collaterale, passi pure. Ma non è il suo obiettivo.
Poi c’è chi ha un approccio più semplicistico e crede che la letteratura dovrebbe avere un fine morale. È una tendenza inquietante in particolare nelle lettere americane — un desiderio di leggere il contesto etico di un libro attraverso l’etica relativa dei suoi personaggi.

RECENTEMENTE mi ha inorridito vedere su Twitter qualcuno che descriveva un romanzo in uscita come «una cosa brutta», come se un romanzo potesse essere inserito nello stesso contesto di un fumetto di Goofus and Gallant (si tratta di un fumetto americano degli anni Quaranta in cui le azioni di un fratello cattivo e un fratello buono sono sempre in contrasto una con l’altra: «Goofus pretende una matita. Gallant chiede educatamente un foglio di carta». E così via). È un’attitudine talmente ridicola che quasi non serve confutarla; basti dire che è stupidissima e l’idea non dovrebbe sopravvivere neanche per un attimo.
Ma allora? In questo mondo segnato dalla malattia, dal cambiamento climatico, dall’incompetenza del governo, dall’egoismo, dal crollo dei sistemi e dallo sbriciolamento del contratto sociale, qual è lo scopo della letteratura? Se non è sufficiente che sia distrazione o intrattenimento, né che possa o meno creare empatia, e oltretutto è un testo religioso che sta lì a insegnare cosa sia giusto o sbagliato, allora perché leggere?

L’AUTRICE DI ROMANZI Ottessa Moshfegh arriva a rispondere a questa domanda più di chiunque altro io abbia mai incontrato. Scrive: «Vorrei che i romanzieri del futuro si ribellassero alla convinzione che si debba scrivere per migliorare la società. L’arte è qualcosa di diverso dai media. Un romanzo non è uno ‘speciale del pomeriggio’ o mangime per la Twittersfera o materiale con cui i giornalisti possano fare delle belle generalizzazioni sulla cultura. Un romanzo non è il sito BuzzFeed o la Radio Pubblica Nazionale o Instagram e nemmeno Hollywood. Mettiamo le cose in chiaro. È un’opera d’arte letteraria che ha lo scopo di espandere la consapevolezza. Abbiamo bisogno di romanzi che vivano in un universo amorale, al di là degli obiettivi della politica descritti dai social media. Ci sarà un motivo se siamo dotati di immaginazione. Romanzi come American Psycho e Lolita non hanno avvelenato la cultura. Lo hanno fatto le aziende criminali e le industrie rampanti. Abbiamo bisogno di personaggi che nei romanzi siano liberi di muoversi nel male e nell’oscurità. Altrimenti come facciamo a capire noi stessi?».

IN UN MONDO POST-COVID – in cui le nostre ingiustizie e i nostri difetti strutturali sono stati portati allo scoperto – potrà sembrare strano pensare che i romanzi facciano una cosa così astratta come «espandere la consapevolezza». È un processo troppo complesso perché venga quantificato o misurato, comprato o venduto. In un mondo dominato dal capitalismo sembra impossibile.
Ho frequentato il college a Washington, la capitale degli Stati Uniti, e quasi tutti i miei amici di scuola sono andati a lavorare per organizzazioni governative o no-profit o organizzazioni umanitarie internazionali. Per anni non ho potuto fare a meno di agitarmi rispetto al mio lavoro e al suo contributo — o non contributo — nei confronti del mondo. È difficile da vedere, complicato da spiegare, impossibile da misurare. Non è a servizio diretto di altri individui. Non dà da mangiare agli affamati, non veste i poveri, non finanzia cause giuste e neanche raccoglie la spazzatura dal marciapiede. Eppure io sono convinta che sia importante perché le persone non sono solo corpi: sono anche menti.

NON È COMPITO della letteratura tenerci al sicuro; quello attiene ai nostri governi. Né consolarci: quello è un dovere della nostra famiglia e dei nostri amici. Non è compito della letteratura nemmeno consegnarci insegnamenti morali; lo fanno i nostri capi religiosi e la nostra coscienza. In realtà, io sostengo che la letteratura un compito proprio non ce l’abbia.
Quasi tutto quello che uno scrittore fa è incommensurabile. Persone che non ho mai conosciuto hanno letto il mio libro: il mio fantasma ha toccato il loro, ma ovviamente non lo saprò mai. Le persone leggono il mio libro in traduzione, in lingue che io non parlo e non parlerò mai. Dopo la mia morte, se sarò fortunata, qualcuno leggerà la mia opera, e in quel modo si metterà in comunione con un frammento del mio cervello al di là della tomba, e chissà, magari lascerò il segno. È questo che significa contribuire al progetto della consapevolezza: entrare impercettibilmente nella circolazione sanguigna dell’uomo e generare piccoli mulinelli e correnti che creeranno effetti immediati e a lungo termine che nessuno riesce a immaginare.
Nonostante questa inconoscibilità, il progetto della letteratura diventa non tanto quello che lei può fare per noi, ma quello che noi possiamo fare per lei. Possiamo finanziare il progetto della letteratura, della pittura e della danza. Possiamo creare sistemi sociali stabili in modo che chi voglia possa dedicarvisi senza sovvertire la propria vita. Possiamo dare valore non solo agli esiti che risultano misurabili ma a quelli ineffabili, misteriosi, belli – cioè all’arte. In breve, a ciò che ci rende umani.

(Traduzione Monica Capuani)