Si sentiva l’esigenza di un altro Festival Letterario in un’India che di Festival piccoli, medi, grandi ne conta già a decine, tutti sfarzosamente sponsorizzati dalle stesse multinazionali o gruppi media che sostengono politiche economiche per niente amiche delle minoranze e dell’ambiente? E soprattutto: è ancora possibile credere nella forza politica della parola scritta – nel valore di resistenza dei quella pratica in fondo solitaria che è la scrittura, vuoi in forma di romanzo o addirittura poesia, parole che si versano sulla pagina in libertà?

«Assolutamente sì» è la risposta di Jhelum Roy, 28 anni, PhD in corso alla Jadavpur University di Kolkata, che insieme al BSN (Bastar Solidarity Network) di Kolkata ha ideato, organizzato e promosso un People’s Literary Festival tenutosi il 24-25 Marzo al Sukanta Mancha (così chiamato in memoria di Sukanta Bhattacharya, scrittore bengalese amatissimo per l’impegno di intellettuale comunista, oltre che per la militanza anti-Raj dei tempi suoi).

«Non ne possiamo più di Festival letterari che, sul modello di quello lanciato a Jaipur nel 2006, si propongono come occasioni di imperdibile visibilità anche per quelle espressioni di letteratura che non c’entrano nulla con il non-ethos degli organizzatori, e che anzi si sentirebbero dall’altra parte della barricata» spiega la Roy.

«Immaginiamo una Jacinta Kerketta, espressione dei diritti indigeni del Jharkhand, invitata al Literary Festival di Mumbai, come infatti è successo, per cortese interessamento delle acciaierie ApeeJai; oppure un gigante della scena letteraria indiana contemporanea come Varavaro Rao, fondatore di quella cosa che si chiama VIRASAM (Associazione degli Scrittori Rivoluzionari), che infatti non invita mai nessuno… Perché questa è la situazione: anche sul fronte della cultura dovremmo accettare il certificato di ‘qualità’ che ci viene elargito da istituzioni sponsorizzate da multinazionali come Tata o Vedanta, che proprio nelle aree tribali e minerarie del centro India si sono macchiare delle peggiori aggressioni socio-ambientali degli ultimi anni. E d’altra parte: se ti sottrai rimani ai margini, se partecipi sei un venduto… ed ecco appunto la ragione di essere di un Festival come il nostro: si sentiva l’esigenza di una liberated zone…»

ACCIAIO

La goccia che ha fatto traboccare il vaso ha coinciso infatti con un quanto mai inopportuno Kalinganagar Mahotsav, un Festival che Tata Steel ha pubblicizzato qualche mese fa su Twitter come ‘celebrazione dell’incontro della siderurgia di qualità (sic!) in sostegno della creatività’… «Ma ci rendiamo conto? Quella stessa Tata Steel che proprio a Kalinga Nagar, nord dell’Orissa, istigò nel 2006 la strage di 12 attivisti dell’etnia Ho, colpevoli solo di manifestare la loro protesta contro l’arrembaggio delle ruspe, per l’ennesimo land grabbing ad uso minerario» sottolinea concitata la voce di Jhelum di là da filo.

CROWDFUNDING

«Ci siamo consultati all’interno del nostro collettivo, abbiamo messo a punto una lettera di invito in forma proprio di appello, per dire ‘incontriamoci, contiamoci, ricominciamo da noi’ e pochi mesi dopo eccoci tutti riuniti in questo spazio a Nord di Kolkata, per questa due-giorni densissima di dibattiti, di fronte a una platea affollata del pubblico che volevamo, niente riflettori né vip, più che altro studenti, lettori, insegnanti, la Kolkata migliore! Il tutto reso possibile da un crowdfunding e contando su ospitalità amichevoli per gli ospiti che venivano da fuori. Sotto tutti i punti di vista un successo, soprattutto per i legami di solidarietà e supporto reciproco che si sono intrecciati tra gli scrittori, alcuni provenienti da frontiere di particolare turbolenza…»

Come nel caso del giornalista-scrittore Shahnaz Bashir, dal Kashmir, autore di un recente Scattered Souls (Anime Sparse), che come già nel precedente Half Mother (Metà Madre) fotografa in tutta la sua brutalità l’occupazione più militarmente massiccia del pianeta, 750.000 uomini che da 30 anni non riescono a sopprimere la voglia di autodeterminazione. O di Ansaruddin, scrittore-contadino alle prese con tutti i possibili ricatti che il mondo agricolo dell’India sta subendo da anni, per esempio dalla Monsanto. O ancora, di Raja Puniyani interprete della resistenza nelle regioni del Gorkhaland, ai confini col Nepal. O come nel caso di un certo Rinchin, impegnato in un progetto di urban storytelling ‘dal basso’ come diremmo noi, o piuttosto ‘dalla monnezza’ com’è normale che sia trattandosi di metropoli indiane, ridotte per lo più a jhuggies (slums), formicolanti di ragpickers (addetti ai rifiuti).

E che dire della testimonianza di un Arun Ferreira, da quell’inferno che è stata la sua stessa detenzione nel carcere di Nagpur, tra i più duri dell’India; o di una Haripriya Soibam, in tema di resistenza delle donne contro il patriarcato, dentro e fuori lo stato del Manipur; o di vari collettivi di ‘resistenza creativa’, come nel caso del gruppo Rela di Bhopal, che non perde occasione di mettere in scena quella particolare fascistizzazione degli animi che si chiama Hindutva; o sotto forma di laboratorio teatrale per bambini nel Bangala occidentale, per un altro progetto collettivo noto come Ankur; o per raccontare delle aspirazioni creative degli intoccabili; o di quel particolare masala di espressioni che evoca nei suoi significati ormai anche politici lo Spirito dei Luoghi nelle varie tradizioni tribali…

SCRITTURA DI DONNE

E poi l’emergenza di una scrittura di donne di sorprendente forza e originalità, come nel caso di Kutti Revathi, poetessa, film-maker, attivista, direttrice di una pubblicazione in lingua Tamil (oltre che esperta di quella antica terapia che in Tamil Nadu si chiama Siddha), che non esita a fare poesia a partire dal suo stesso corpo, per esempio dai suoi Seni (come titola la sua raccolta più recente), di cui racconta desideri, rabbie, pensieri, con le reazioni, minacce addirittura, che ben possiamo immaginare.

E non solo scrittori in scena, più o meno famosi anche per l’India. «Questo nostro Festival ha dato spazio anche ai performing groups, attori, suonatori… e alle riviste, spesso in lingue che non hanno mercato; e a tutti quei temi che per i main stream media sono tabù: le atrocità sponsorizzate dagli interessi corporativi nelle aree Adivasi dell’India, il martirio dei dalits, il linciaggio dei mussulmani perché le loro abitudini alimentari non piacciono a Mr Modi… Nel quadro della violenza strutturale che lo stato fascista brahminico ha deciso di sferrare contro chiunque non si allinei con l’Hindutva, ci è sembrato urgente rinforzare una rete di solidarietà tra tutte queste situazioni di piccola editoria resistente, che cercano di dare voce a chi voce non ce l’ha» sottolinea di nuovo Jhelum.

Accanto a molti nomi semi sconosciuti, non poteva fare a meno di primeggiare un personaggio letteralmente leggendario per l’India come Varavara Rao, poeta, critico letterario, giornalista, attivista politico, membro fondatore appunto di VIRASAM (Associazione degli scrittori rivoluzionari) nella lingua Telegu dell’Andhra Pradesh in cui si ostina a scrivere. Su tutti loro aleggiava lo spirito della compianta Mahasweta Devi «che avrebbe molto amato davvero questa nostra iniziativa» conclude commossa Jhelum Roy. «La Mahasweta autrice di tanti libri, dall’interno di tutte le possibili Altre Indie; ma più ancora la Mahasweta talent scout, con quel suo periodico, Bortika (ovvero Torcia, ndr) a disposizione di chiunque avesse una storia da raccontare, anche se scrittore non era: esperimento di letteratura proprio di popolo, e letteralmente unico, non solo per l’India.»