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Scritture instabili per spettatori inquieti

Scritture instabili per spettatori inquieti"Umano non umano" di Mario Schifano ('69)

Mostra Dal 19 settembre al 9 novembre "Doppio Schermo" mostra il film e il video d'artista in Italia dagli anni '60 ad oggi

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 16 settembre 2017

Cinema sperimentale, film e video d’artista, cinema di ricerca. Già questi termini pongono domande, si aprono sul dubbio. E in Italia presentano un panorama critico frammentato e incerto, soprattutto per i primi decenni indagati dalla rassegna al MAXXI. Un cinema che è cinema a pieno titolo ma che ha trovato una sua visibilità per zone, luoghi, momenti: non c’è ancora una storia compiuta, una ricostruzione adeguata. Tracce, sì, che andrebbero ripercorse ad esempio nella meritoria attenzione da parte di alcune riviste, nella pionieristica attività di festival e rassegne, nello sguardo acuto e non riconciliato di alcuni critici e studiosi. Importanti ricognizioni e restauri. Monografie (come quella recentemente dedicata a Franco Brocani dal Festival di Piombino e poi a Piane di Bronzo a Tuscania in luglio); editoria elettronica, con dvd e libri allegati. O ricognizioni come quelle delle mostre di anni fa a Catanzaro o negli incontri del festival di Pesaro. Gli archivi, anche. Articoli, saggi, qualche testo che ripercorre un periodo, una geografia. Spunti, appunti. Necessari, non sufficienti. Ma è significativo e interessante che un numero sempre più alto di giovani studiosi, anche con tesi di laurea e di dottorato, si rivolga con curiosità a questo universo.

Fatto sta che qualcosa sfugge sempre, e che di continuo il cinema sperimentale italiano (e d’artista, e underground) fa emergere nomi dimenticati, ricorda allo studioso distratto un film non considerato, ci fa arrivare messaggi nella bottiglia, ci rimprovera un oblio, sottolinea con lo sguardo dell’oggi come non si siano considerate abbastanza, ad esempio, le presenze femminili. Ed è davvero difficile accostare autori e autrici (poche, queste, appunto, soprattutto nei primi due decenni presi in esame) che ci presentano pratiche artistiche così diverse, spesso coesistenti in una stessa persona: radicale sperimentalismo e spot pubblicitario, video musicali e film d’animazione e sigle televisive, giunte di pellicola cucite col filo e loop elettronici. Ed è ancora da esplorare compiutamente una costante del cinema sperimentale italiano, che è quella dell’intreccio fra le arti, pittura teatro cinema grafica musica. Un doppio sguardo che si sdoppia e si moltiplica ancora.

Vedere quindi, vedere e rivedere occorre, per colmare le lacune, conoscere, riconoscere e porsi nuove domande: e quindi è una festa per l’occhio, la mente e i sensi questo programma del MAXXI, ricco di immagini e suoni dagli anni Sessanta del Novecento a oggi, affiancati da momenti di riflessione. Dal gruppo degli anni Sessanta fino all’affollarsi di nomi e opere di oggi è un bel viaggio, in cui si capirà anche come la scena italiana sia stata per molti aspetti pionieristica e innovativa; e in dialogo, consapevole o meno, con il panorama internazionale.

Snodo importante è quello degli anni Settanta, con la sovrimpressione cinema-video. La rassegna presenta nel suo insieme lavori nati in super8, 16mm, 35mm, video, digitale, ma negli anni Settanta il passaggio e la compresenza sono stati luogo di pensiero sulla diversità di media e supporti, a prescindere dal pur importantissimo elemento (per questo tipo di cinema autoprodotto) del basso costo del nastro magnetico rispetto alla pellicola. La bassa definizione dell’immagine elettronica (descritta da Marshall McLuhan nel suo celebre Understanding Media, del 1964) appare quasi dichiarazione di poetica. Elogio dell’imperfezione, così come il tempo reale del circuito chiuso appare metafora ideale e reale della processualità; così come la possibilità di re-incidere il nastro più volte fa emergere l’elemento della deperibilità – lo comprende e lo sperimenta bene Michele Sambin, pioniere del videoloop.

E sarà, questa, un’occasione importante, oltre la ricostruzione di periodi e nomi, per verificare come gli studi sul panorama odierno delle immagini in movimento siano debitori alla pratica artistica e alla riflessione di queste avanguardie in parte overground e in parte sotterranee. E’ come se questi cineasti e videomaker e videoartisti avessero traghettato le utopie delle avanguardie storiche (o parte di esse) verso l’oggi, verso un paesaggio in costante metamorfosi mediatica. Gli studi odierni sull’ estetica della bassa definizione, sul cinema espanso, sulle modalità di proiezione non canoniche e sugli schermi “eretici”, la riscoperta dell’esperienza come elemento centrale della fruizione audiovisiva, della performatività (delle immagini, dei supporti, degli schermi appunto, dello stesso spettatore) rilanciano in epoca digitale intuizioni lontane. O meglio: lontanovicine, come direbbe il “poetronico” Gianni Toti.

Senza dimenticare la fiera indifferenza, talvolta l’ostilità, verso “la trappola per lupi (così la chiamava Jean Epstein) rappresentata dalla smania dell’avvenimento, dell’intreccio…”. Anche se dagli anni Ottanta, e con un crescendo fino a oggi, esperienze di narrazione seppur anomala si fanno largo in vario modo. E poi la tecnica, con un’attitudine all’ingegnoso bricolage d’artista ma anche con la capacità di dialogare o scontrarsi con i generatori di effetti elettronici sovvertendone spesso la funzionalità originaria e deviandoli verso il caos e l’imprevisto. Nel primo caso basta ricordare Paolo Gioli e la sua camera stenopeica: film realizzati impressionando la pellicola con la luce che passa da un foro (anche il foro formato da un pugno chiuso), quindi una sorta di grado zero, una celebrazione sublime della luce che lascia la propria orma sulla pellicola. Nel secondo caso la presenza di Gianni Toti in RAI, per la Ricerca e Sperimentazione Programmi: i montatori (divenuti “montautori”) sono invitati a scoprire le valenze ignote e creative di effetti elettronici inesplorati che diventano attori ed entrano perfino nei titoli (come lo squeezoom, nel VideoPoema Squeezangezaùm, del 1988).

Alchimisti dell’immagine, per usare una definizione di Adriano Aprà. Graffiature del supporto, pittura su pellicola, mescolanze di tecniche. Felicità della materia col cinema, curiosità per l’immaterialità del segnale elettronico con la TV (si pensi a Lucio Fontana nei primi anni Cinquanta) ma anche curiosità per la materia opaca e deperibile e imperfetta del nastro magnetico con la sperimentazione in video. Inquietudini digitali nell’andirivieni fra storie e modi di narrare, forme e modi dei linguaggi. E’ cinema, è arte contemporanea, sono immagini in movimento? E’ poesia, è graffio politico irriducibile, è un silenzio nel rumore mediatico? E’ rumore benefico nel silenzio che ci circonda? Radicale dissenso, amorosa proposta? E tutto questo come ci parla? Fra rarità e riscoperte e riflessioni la rassegna al MAXXI propone quelle che Bruno Di Marino definisce “scritture instabili”. Per spettatori irrequieti.

mpresenza sono stati luogo di pensiero sulla diversità di media e supporti, a prescindere dal pur importantissimo elemento (per questo tipo di cinema autoprodotto) del basso costo del nastro magnetico rispetto alla pellicola. La bassa definizione dell’immagine elettronica (descritta da Marshall McLuhan nel suo celebre Understanding Media, del 1964) appare quasi dichiarazione di poetica. Elogio dell’imperfezione, così come il tempo reale del circuito chiuso appare metafora ideale e reale della processualità; così come la possibilità di re-incidere il nastro più volte fa emergere l’elemento della deperibilità – lo comprende e lo sperimenta bene Michele Sambin, pioniere del videoloop.

E sarà, questa, un’occasione importante, oltre la ricostruzione di periodi e nomi, per verificare come gli studi sul panorama odierno delle immagini in movimento siano debitori alla pratica artistica e alla riflessione di queste avanguardie in parte overground e in parte sotterranee. E’ come se questi cineasti e videomaker e videoartisti avessero traghettato le utopie delle avanguardie storiche (o parte di esse) verso l’oggi, verso un paesaggio in costante metamorfosi mediatica. Gli studi odierni sull’ estetica della bassa definizione, sul cinema espanso, sulle modalità di proiezione non canoniche e sugli schermi “eretici”, la riscoperta dell’esperienza come elemento centrale della fruizione audiovisiva, della performatività (delle immagini, dei supporti, degli schermi appunto, dello stesso spettatore) rilanciano in epoca digitale intuizioni lontane. O meglio: lontanovicine, come direbbe il “poetronico” Gianni Toti.

Senza dimenticare la fiera indifferenza, talvolta l’ostilità, verso “la trappola per lupi (così la chiamava Jean Epstein) rappresentata dalla smania dell’avvenimento, dell’intreccio…”. Anche se dagli anni Ottanta, e con un crescendo fino a oggi, esperienze di narrazione seppur anomala si fanno largo in vario modo. E poi la tecnica, con un’attitudine all’ingegnoso bricolage d’artista ma anche con la capacità di dialogare o scontrarsi con i generatori di effetti elettronici sovvertendone spesso la funzionalità originaria e deviandoli verso il caos e l’imprevisto. Nel primo caso basta ricordare Paolo Gioli e la sua camera stenopeica: film realizzati impressionando la pellicola con la luce che passa da un foro (anche il foro formato da un pugno chiuso), quindi una sorta di grado zero, una celebrazione sublime della luce che lascia la propria orma sulla pellicola. Nel secondo caso la presenza di Gianni Toti in RAI, per la Ricerca e Sperimentazione Programmi: i montatori (divenuti “montautori”) sono invitati a scoprire le valenze ignote e creative di effetti elettronici inesplorati che diventano attori ed entrano perfino nei titoli (come lo squeezoom, nel VideoPoema Squeezangezaùm, del 1988).

Alchimisti dell’immagine, per usare una definizione di Adriano Aprà. Graffiature del supporto, pittura su pellicola, mescolanze di tecniche. Felicità della materia col cinema, curiosità per l’immaterialità del segnale elettronico con la TV (si pensi a Lucio Fontana nei primi anni Cinquanta) ma anche curiosità per la materia opaca e deperibile e imperfetta del nastro magnetico con la sperimentazione in video. Inquietudini digitali nell’andirivieni fra storie e modi di narrare, forme e modi dei linguaggi. E’ cinema, è arte contemporanea, sono immagini in movimento? E’ poesia, è graffio politico irriducibile, è un silenzio nel rumore mediatico? E’ rumore benefico nel silenzio che ci circonda? Radicale dissenso, amorosa proposta? E tutto questo come ci parla? Fra rarità e riscoperte e riflessioni la rassegna al MAXXI propone quelle che Bruno Di Marino definisce “scritture instabili”. Per spettatori irrequieti.

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