Considerato unanimemente tra i più grandi scrittori di racconti della letteratura americana del Novecento, e trait d’union tra il magistero di Hemingway e Sherwood Anderson e il grande realismo di Raymond Carver, John Cheever è stato oggetto, negli ultimi anni e per merito del suo editore, Feltrinelli, di quel processo di pubblicazione sistematica e curata che viene riservato ai classici della narrativa. Dopo l’edizione completa dei Racconti, e i magnifici diari di Una specie di solitudine, è ora il turno delle Lettere (Feltrinelli «Le Comete», pp. 444, euro 35,00, traduzione e postfazione di Tommaso Pincio), che seguono fedelmente l’edizione originale, curata dal secondo figlio dello scrittore, Benjamin Cheever, e uscita negli Stati Uniti, non senza scandali e clamori, nel 1988.

Le ragioni dello scandalo sono tanto evidenti quanto, oggi, irrilevanti, e hanno a che fare soprattutto con l’emergere, specie in alcuni carteggi risalenti agli ultimi anni della sua vita, di una prepotente bisessualità e promiscuità, tanto più clamorose in un autore che, in tanti altri attestati pubblici, aveva esibito un’eterosessualità aggressiva e non scevra da vere e proprie manifestazioni di omofobia.

Irrilevanti, si diceva: il lettore italiano, cui le Lettere arrivano a quasi due anni di distanza dalla pubblicazione dei diari, ha infatti già avuto modo di leggere pagine intere nelle quali la fascinazione per il corpo maschile viene sviscerata in ogni suo dettaglio, tra libido e tormento. Irrilevanti, quindi, sul piano meramente scandalistico: perché non v’è dubbio alcuno, invece, sul fatto che la scoperta di una tensione inesausta tra la dignità della monogamia e la tentazione dell’adulterio e della trasgressione omosessuale getti un ulteriore scandaglio nell’opera di uno scrittore che come forse nessun altro ha saputo illustrare la vita nei sobborghi americani degli anni cinquanta, fatta di case linde immerse in una natura benevola, di nuclei famigliari coesi e armoniosi, di dignità e autosufficienza, ma anche di tormenti sotterranei, instabilità, eventi perturbanti che intervengono ad alterare ogni equilibrio, lasciando i personaggi, siano essi tranquilli padri e madri di famiglia o adolescenti che si destano lentamente al mondo, irreparabilmente segnati.

Narratore di conflitti quieti, di crisi spesso consumate nel silenzio e nel non detto, Cheever deriva buona parte della sua forza e della sua unicità da un fattore oggettivo, che lo differenzia da altri cantori della disperazione dei sobborghi come Richard Yates: nel raccontare un mondo fatto di villette con piscine, di spazi domestici spesso immacolati, di passeggiate nei boschi, di feste all’aperto in cui una comunità fatta di nuclei separati consuma i propri rituali collettivi, la rivelazione degli abissi che si aprono sotto il velo delle apparenze è sempre accompagnata da un amore autentico per quelle stesse apparenze, per un decoro e un’eleganza che non perdono necessariamente valore quando ne viene svelata la natura fragile e illusoria.

Discorso, questo, che vale altrettanto per la vita di Cheever, segnata da vertigini di disperazione e da una vena autodistruttiva che trova nell’alcolismo il suo correlativo oggettivo, ma anche da un amore autentico per la famiglia, per la moglie Mary e per i tre figli, o per il fratello Fred: amore che sopravvive alle ripetute crisi legate alle infedeltà dello scrittore o alle difficoltà famigliari incontrate tanto dalla prima figlia, Susan, quanto dallo stesso Benjamin, e che risuona in molte delle pagine più commoventi delle Lettere.

Nella postfazione al volume, Pincio effettua un interessante distinguo tra la forma diaristica e quella epistolare, sottolineando in particolare come Cheever non avesse mai chiesto ai famigliari di distruggere i suoi diari, mentre «con le lettere ebbe un atteggiamento del tutto diverso. Non fece minute ed esortò più volte i destinatari a distruggerle». Questa netta diversità di atteggiamento induce Pincio a ipotizzare «che per molti versi le lettere fossero per lui una faccenda più privata dei diari. I diari erano un segreto temporaneo, le lettere erano invece parte di un’intimità più superficiale eppure più profonda, erano cioè un’estensione del modo in cui lui si relazionava con le persone care, con la moglie, i figli, gli amici, le amanti e gli amanti». Ipotesi del tutto credibile, purché si tenga conto della sua natura in qualche modo ossimorica: in sostanza, i diari hanno una destinazione pubblica, ancorché postuma, che rende plausibile e ragionevole accostarli alla produzione narrativa, della quale rappresentano un controcanto lirico e personale, ai confini del memoir. Le lettere, invece, sono legate a doppio filo alla quotidianità dei rapporti umani, e si esauriscono tutte dentro una civiltà della conversazione cui Cheever attribuiva comunque un’importanza fondamentale. Raccontano il quotidiano di uno scrittore che è al contempo padre di famiglia, marito, adultero, alcolista; si distendono spesso in lunghe descrizioni di luoghi e abitudini consolidate, rivelando una ricchezza di registri, tra comicità e melanconia, che rendono la lettura varia e affascinante; sono, per citare ancora Pincio, «le piscine delle villette coi giardini curati; sono l’estate; sono il chiacchierare del tempo e di altre minuzie; sono le persone care alle quali amorevolmente mentiamo; sono lo scrivere frettolosamente a macchina per parlare di questa vita \[…\]di luce e di ombre, senza la quale non potremmo morire».

Scritte a macchina, di fretta, cariche di refusi e di errori anche sintattici, le lettere raccolte in questo volume sono indirizzate quasi per intero a colleghi scrittori (da John Weaver e Josephine Herbst, amici di una vita, ai colleghi-rivali Saul Bellow e John Updike), a editor e critici (William Maxwell e Malcolm Cowley, sopra tutti), a famigliari. Crescono in qualità e forza con lo scorrere delle pagine, quasi ad accompagnare un processo di crescita stilistica che raggiunse il suo culmine solo a partire dagli anni cinquanta; rivelano, partendo da dettagli spesso irrilevanti, le complessità di un uomo capace di inarrivabile garbo come di una ferocia senza pari.
Non mancano pagine memorabili: le lettere «scritte» dai cani di famiglia, in un corsivo privo di maiuscole, frenetico, esilarante, nelle quali lo stesso Cheever viene dipinto come «il vecchio di casa», che alza «il gomito da prima dell’alba» e ripulisce l’armadietto dei liquori «per non offrire tentazioni ai ladri di appartamenti»; le descrizioni grottesche e survoltate di party letterari il cui successo è strettamente legato alla quantità e alla qualità del punch messo a disposizione dagli organizzatori; i resoconti dettagliati, tra incanto, comicità e commozione, delle nascite dei tre figli; le critiche spesso taglienti rivolte a colleghi d’ogni scuola e tendenza (due perle: un’irresistibile parodia di Barthelme, corifeo del postmoderno, e un feroce attacco al critico e narratore Edmund Wilson, riferito in particolare a un racconto nel quale «c’è una lunga descrizione di una congiunzione carnale che avrebbe arrecato un danno irreparabile alla congiunzione carnale se non fosse una pratica tanto radicata»). E ancora i resoconti epistolari da una Roma mai così perfettamente sospesa tra fascino e fatiscenza, o dalla Russia, visitata insieme a un ingombrante e fastidioso Updike.

La lettura scorre in crescendo, ed è in grado di regalare soddisfazioni tanto ai cultori di Cheever, quanto a chi lo abbia frequentato solo occasionalmente. Una sola riserva, che è però doveroso riportare. Una nota editoriale segnala come, nella traduzione, si sia cercato ove possibile di seguire il criterio adottato da Benjamin Cheever, il quale «ha scelto di pubblicare le lettere del padre astenendosi da interventi di qualunque genere, a parte qualche omissione dettata da ragioni di riservatezza». Scelta apprezzabile, di per sé: non è tuttavia del tutto chiaro se sia all’origine di tutti i refusi nei quali ci si imbatte durante la lettura. Alcuni di essi (le concordanze al maschile o al femminile, per esempio) difficilmente possono trarre origine da trascuratezze dell’originale, mentre altri fanno capolino nelle parti di raccordo tra una lettera e l’altra, scritte direttamente dal curatore americano. Piccole trascuratezze che non compromettono la qualità del volume, sorretto da una traduzione molto solida e scorrevole, ma che si sarebbero comunque dovute evitare.