L’interesse per questioni filosofiche potrebbe apparire ozioso per un politico, specialmente nella nostra epoca, nella quale ogni rapporto vincolante tra teoria e prassi sembra essersi spezzato. L’astrazione del concetto ci appare quanto di più lontano da quella capacità di interpretare la contingenza e l’immediatezza, propria del politico e dell’uomo d’azione. Non così Lenin, per il quale «l’analisi concreta della situazione concreta non si contrappone alla teoria ‘pura’» ma ne rappresenta, al contrario, «il punto culminante».

L’analisi teorica va quindi di pari passo con l’organizzazione pratica, lo studio dell’intero sociale e della necessità storica con la capacità di cogliere il particolare e la contingenza rivoluzionaria. Successivamente raccolti come Quaderni Filosofici (traduzione di Ignazio Ambrogio, PGreco, pp. 749, € 30,00), gli scritti e le glosse filosofiche di Lenin sono oggi nuovamente disponibili per il pubblico italiano nella loro edizione più completa ed esaustiva e con un’utile introduzione a cura di Roberto Fineschi, che ne ripercorre la genesi e le diverse periodizzazioni.

Saranno soprattutto gli anni della guerra mondiale e del tradimento della socialdemocrazia – nei quali la prassi appare, come oggi, bloccata – ad esser dedicati al «lavoro del concetto» e alla lettura approfondita della Scienza della logica di Hegel. Se l’importanza di Lenin come politico può esser difficilmente negata – anche dai suoi avversari – solo di recente sembra si sia tornati a riconoscerne quella propriamente filosofica.

Quest’ultima non va ricercata tanto nelle singole tesi filosofiche – come quella del celebre «rispecchiamento», trivializzata dal Diamat sovietico – quanto proprio nella sintesi complessiva che Lenin è stato capace di imprimere al rapporto tra teoria e prassi, tanto nella pratica rivoluzionaria quanto sul piano più propriamente concettuale, attraverso il serrato confronto con la dialettica hegeliana (vedi su questo i recenti lavori di Costantino Avanzi e Carlo Di Mascio).

Radicalizzando, si potrebbe sostenere che in Lenin giunga ad uno dei suoi esiti più estremi la stessa impresa filosofica moderna, costruitasi su quella medesima tensione tra pensiero e trasformazione che sta al centro della sua riflessione filosofica. Caduta la garanzia di una sostanzialità teologica alla quale attingere il criterio del vero e del giusto, il pensiero moderno si caratterizza infatti per l’ambizione di produrre autonomamente criteri veritativi e normativi.

La modernità si inaugura quindi nel momento in cui la mente, da organo della contemplazione, diviene strumento operativo, capace di plasmare la realtà. Signum veri diventa così l’effettualità, ossia l’effettiva capacità del pensiero di dare forma e ordine al mondo. Si può quindi dire che il problema politico stia al cuore stesso della modernità: in quanto esercizio concreto del libero agire umano, esso riguarda infatti specificamente la produzione di normatività, ossia di quella forma di obbligazione non imposta dai fatti, ma istituita dall’uomo stesso. Il che ovviamente non significa che alla politica non si imponga alcuna necessità oggettiva. Anzi, proprio in quanto luogo di massimo confronto con la realtà effettuale, essa non può non saggiare tutta la precaria contingenza dell’agire umano.

E proprio in questa tensione tra esercizio veracemente trasformativo e indagine sull’oggettività concreta sta la verità del Lenin filosofo, il quale ha compreso non solo che il pensiero dimostra la propria verità nella trasformazione della realtà – ossia nella rivoluzione – ma anche, e soprattutto, che solo dall’esercizio rigoroso del pensiero quest’ultima può essere colta come possibilità reale e, quindi, come necessità storica.