Continua a spargersi la semina degli scritti di John Muir. Quest’autore è stato a lungo misconosciuto in Italia, ma negli Stati Uniti, fra la seconda metà del XIX secolo e l’inizio del XX, è stato personaggio carismatico, prolifico autore, anima del Sierra Club e protagonista dello sviluppo della riserva che ha tutelato le meraviglie naturali della valle di Yosemite, nonché grande amante dell’Alaska.

Camminatore, esploratore, ma anche uomo capace di coltivare rapporti politici, coi sindaci delle città costiere, coi governatori dello Stato, addirittura coi Presidenti degli Stati Uniti. Sebbene gli amanti della natura abbiano sempre avuto accesso alle sue opere in inglese, in Italia la prima traduzione di un libro risale al 1995, a quel La mia prima estate sulla Sierra, edito da Vivalda nella preziosa collana Licheni.

Ma non era ancora tempo per la grande epopea naturalistica che attualmente sta vivificando i mercati editoriali di questo primo scorcio di millennio. E così, classici mai tradotti o avventurosamente pubblicati per sparire il mese dopo dagli scaffali delle librerie, oggi tornano prepotentemente alla ribalta. John Muir non poteva che essere uno degli autori da «riscoprire». In queste ultime stagioni sono apparse le epifanie muiriane dei volumi Mille miglia in cammino fino al golfo del Messico (grazie alle Edizioni dei Cammini di Luca Gianotti), Una tempesta di vento nella foresta (La vita felice, curatela dell’amico Luca Castelletti), ed ora Andare in montagna è tornare a casa (Piano B edizioni), saggi scelti di varia matrice, pubblicati su rivista fra il 1865 e i primissimi del Novecento, o estrapolati da classici quali Our National Parks (1901) e The Mountains of California (1894).

Nonostante queste benemerite azioni, di cui sono grato, continuo a non comprendere perché non si compia il salto decisivo e non si realizzi un’edizione estesa e sistematica degli scritti del Muir, d’altronde lo si è fatto con Thoreau che in Italia sta vivendo una vera e propria nuova primavera.

La natura «selvatica» che Muir poteva attraversare ai suoi tempi, negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta dell’Ottocento, era ben diversa rispetto alla natura preservata e ripulita che noi oggi possiamo visitare, al posto suo. Sono trascorsi soltanto cento e cinquant’anni eppure il mondo è cambiato.

La California è cambiata. E anche questi mausolei della natura che noi andiamo in pellegrinaggio a visitare, come si fa nei luoghi francescani o nei templi scavati nelle grotte lungo la Via della Seta, oramai abbracciano una natura addomesticata, dove l’incontro col periglioso selvatico è aneddoto, eccezione, o sfacciata casualità.
Alle nostre latitudini, quando questo accade, è preambolo di drammatiche conclusioni, sempre a discapito degli animali. Eppure le pagine dei naturalisti di epoche passate ci assetano come visioni di acqua fresca in mezzo al deserto.

Chiuso un libro di Thoreau, di Muir, di Emerson, di Leopold o perché no, dei nostri italianissimi esploratori, la voglia di infilarci gli scarponi ai piedi e di partire per le selve alpine o per il gran bosco che risale l’Appennino, è manifesta e quasi inarrestabile.

«Qui vi è una calma così profonda che l’erba smette di oscillare… meraviglioso come tutto nella natura selvaggia ci calzi a pennello, come se fosse davvero una nostra parte progenitrice. Il sole scintilla non su di noi, ma in noi. I fiumi scorrono non oltre noi, ma attraverso noi, tremando, titillando, facendo vibrare ogni fibra e cellula delle sostanze dei nostri corpi, facendoli volteggiare e cantare» scrive il Muir nel 1870.
Cosa fate dunque lì seduti, alzatevi e uscite!