Uno dei primi studi fotografici del Regno Unito fu aperto a Edimburgo nel 1843 da Robert Adams insieme al pittore David Octavius Hill: nei cinque anni in cui i due artisti lavorarono insieme, produssero più di duemila fotografie, ritratti e vedute che, in virtù di un sapiente dosaggio delle luci e del chiaroscuro, furono usati anche come studi preparatori per l’attività pittorica di altri artisti scozzesi.

A un rivoluzionario quadro dello stesso Hill, Disruption Picture, realizzato utilizzando centinaia di ritratti fotografici eseguiti con Adams, si rifà la struttura del romanzo di James Robertson Solo la terra resiste (traduzione di Sabrina Campolongo, Carmine Mezzacappa, Clara Pezzuto, edizioni Paginauno, pp. 800, euro 18.50), un affresco narrativo di portata epica che, per raccontare sessant’anni di storia scozzese, parte, non a caso, dall’organizzazione di una mostra fotografica e si conclude con la sua inaugurazione.
Così come, in Disruption Picture, Hill – sconvolgendo ogni ordine gerarchico e compositivo tradizionale – raffigura in proporzioni gigantesche i sacerdoti che fondarono la Chiesa Libera di Scozia, rifacendosi a 457 calotipi democraticamente giustapposti, allo stesso modo Robertson – lungo 800 pagine fitte di eventi – racconta vicende che ora scorrono parallele ora si intrecciano alla Storia, conferendo pari dignità a tutte le donne e gli uomini che le hanno vissute.

A proposito del quadro di Hill, un personaggio di Solo la terra resiste osserva ciò che si può facilmente riferire allo stesso romanzo di Robertson: «l’intera operazione costituisce l’inverso della rimozione delle persone dalla Storia. Il pennello di Hill, al contrario, ce le mette dentro … Non un quadro storicamente accurato, bensì la rappresentazione di un momento nella Storia, di un movimento».

Molteplici fronti
Quello rappresentato da Robertson, è un arco temporale che parte dal 1950 e arriva al 2008: vi si agitano una serie di figure solitamente rimosse dal racconto ufficiale – operai, minatori, casalinghe, omosessuali, giovani che si affrancano da una realtà proletaria attraverso lo studio e loro coetanei sbandati, ragazze che vivono la difficoltà della loro condizione di genere in un mondo patriarcale, gente comune della provincia dimenticata dai centri del potere.
Se il rapporto tra storia locale e storia globale e tra la grande storia universale e le piccole storie individuali costituisce da sempre l’ossatura privilegiata del romanzo storico, a rendere unico nel suo genere il lavoro di Roberston sono da un lato l’attenzione a quanto la politica (intesa anche come storia nel suo farsi) possa influire sulla vita dei singoli o ne possa essere influenzata, d’altro canto il riconoscimento, nelle esistenze misconosciute, di quell’«eccezionale normale» che caratterizza la microstoria, ovvero la consapevolezza che ogni configurazione sociale è il prodotto dell’interazione di innumerevoli opzioni individuali.

Dopo una prima parte che vede al centro un fotoreporter impegnato ad allestire una retrospettiva dedicata all’opera del padre defunto, fotografo di ben più chiara fama, nelle quattro sezioni successive il romanzo mette in campo le vicende di svariati personaggi che, a tutta prima, sembrano non avere nessun legame tra loro né con i due fotografi, ma che si riveleranno più avanti legati tra loro da indizi quasi impercettibili, destinati a chiarirsi in conclusione, al vernissage della mostra fotografica.

Com’è proprio delle narrazioni corali, anche qui l’interesse di chi legge è impegnato su molteplici fronti, e motivato dalla curiosità di scoprire in che modo le varie storie apparentemente disgiunte finiranno per intersecarsi. L’identificazione con i personaggi è decentrata: non ci sono protagonisti, solo comprimari, ognuno dei quali riceve dall’autore tutta l’attenzione necessaria affinché chi legge gli si affezioni e si riconosca nella sua storia. La crisi matrimoniale di Don e Liz, per esempio, è la stessa vissuta da innumerevoli coppie in tutto il mondo, quando la cura dei figli finisce per inghiottire la quotidianità; il bisogno di emancipazione di ragazze come Barbara o Ellen ha scosso l’universo femminile a ogni latitudine negli anni Settanta; e, mentre nella vicenda di Mike l’aspirazione a vivere liberamente la propria sessualità s’intreccia alla difficoltà di venire a patti con una figura paterna al tempo stesso troppo assente e troppo ingombrante, David Eddelstane, il deputato conservatore che nasconde un inconfessabile segreto, è tratteggiato con una tale sensibilità dal laburista Robertson da suscitare un’ondata di dolente empatia nel lettore. Ma a catturare la mente sono soprattutto i due «uomini fantasma», Jack Gordon e Peter Bond, intrappolati in «storie senza un finale», evanescenti personificazioni del «meccanismo di autodistruzione incorporato in uno scozzese su dieci».
Jack che, non riuscendo a riadattarsi alla vita sociale dopo l’atroce esperienza nei campi di prigionia giapponesi, abbandona moglie e figlia per vivere sulla strada, è il vagabondo la cui silhouette sempre più diafana appare in apertura di ogni sezione del libro, sino a farsi parte del (e scomparire nel) paesaggio scozzese, per riapparire, da ultimo, in una fotografia.

Bond – il cui vero nome, ironia della sorte, è James –- è un agente segreto scalcagnato e reietto, i cui deliri alcolici costituiscono alcune tra le pagine più dense e singolari del romanzo. Entrambe queste figure possono essere lette anche con una valenza politica: Jack è stato interpretato come metafora del nazionalismo, che periodicamente riappare in Scozia a mo’ di spettro, mentre Bond tradisce la sua gente spiando per conto del governo britannico.

La funzione di entrambi i personaggi sembra essere quella di enfatizzare la strategia con cui Robertson usa storia e politica per sostanziare il suo libro: sono individui per cui «il passato non è mai morto. E neppure passato». Ma non sono i soli: come loro, anche tutti gli altri personaggi del romanzo, si agitano dentro la storia, senza sapere come andrà a finire.

«Non sappiamo quale sia la storia finché ci siamo dentro, e persino dopo averla raccontata non ne siamo sicuri», afferma Mike all’inaugurazione della retrospettiva paterna, per giustificare l’ordine arbitrario in cui ha disposto le foto selezionate. E aggiunge: «Qualsiasi cosa queste fotografie vi raccontino, individualmente o nel complesso, fidatevi della storia. Siamo soltanto umani, dopotutto. Qualsiasi altra cosa in cui riponiamo la nostra fiducia, alla fine sarà destinata a tradirci, o noi a tradire lei. Ma la storia non tradisce mai…».

Una storia universale
Così il romanzo non può che restare aperto sulle tante vicende individuali, nella «consistenza della propria provvisorietà» di fronte alla raggelata immagine fotografica di un uomo da tempo scomparso. La postfazione dell’autore, che illustra il periodo storico del romanzo, per quanto utile non aggiunge nulla al piacere della lettura: non occorre conoscere la storia scozzese, infatti, per apprezzare il lavoro di Robertson, che ha avuto modo di far notare come i cambiamenti raccontati in Solo la terra resiste si siano verificati in tutto il mondo: non è difficile riconoscersi in questo inesorabile mutamento, guardare al mondo di ieri e domandarsi, insieme allo scrittore: «Come abbiamo fatto ad arrivare da lì fin qui?» Intanto, la storia va avanti.