Oggi la Scozia vota sull’indipendenza, 307 anni dopo l’Act of Union con l’Inghilterra. L’esito del voto è incerto. Nel caso di vittoria dei sì, la Scozia assumerebbe una sua autonoma soggettività internazionale e – prevedibilmente – uno status analogo a quello dei paesi del Commonwealth, come l’Australia e il Canada.La Gran Bretagna non ha una costituzione scritta, ma questo non impedisce che l’Act of Union sia ritenuto atto di rilievo e natura costituzionale.

Come si fa un referendum che cambia profondamente gli assetti costituzionali senza una carta fondamentale che ne definisca il procedimento? Nel caso britannico, il passo iniziale è stato un accordo intergovernativo, il 15 ottobre 2012, tra Cameron e Salmond, primo ministro scozzese e capo del partito nazionale scozzese. Secondo l’accordo, il parlamento scozzese ha approvato il 14 novembre 2013 una legge sulle modalità della consultazione. La legge ha poi avuto la sanzione reale il 17 dicembre 2013. Dunque, non si tratta di secessione unilaterale, poiché la procedura è stata concordata dalle istituzioni britanniche oltre che da quelle scozzesi.

Possiamo pensare che Cameron non avrebbe mai concesso il suo assenso se avesse anticipato la possibilità di una sconfitta che segnerebbe probabilmente la sua fine politica. Tra l’altro, lo stesso governo britannico rifiutò la proposta scozzese che sulla scheda ci fosse un secondo quesito per una più ampia autonomia in alternativa all’indipendenza tout court. Si temeva che potesse favorire i sì mentre, al momento, gli indipendentisti non superavano il 30%. Ma gli ultimi sondaggi danno una sostanziale parità. Ed è davvero un paradosso che oggi il governo britannico prometta, se vincono i no, quella maggiore autonomia che aveva in principio rifiutato come secondo quesito.

Scozzesi e inglesi non si amano, e non si sono mai amati. Furono molte in Scozia le voci contrarie all’Act of Union, approvato tra manifestazioni e disordini. Ma United Kingdom non è mai stato sinonimo di stato centralizzato. La Scozia, in particolare, ha storicamente avuto un legal system largamente proprio, che solo in parte condivide le proprie fonti con quello inglese. A seguito di un referendum del 1997, lo Scotland Act 1998 ha devoluto al rinato parlamento scozzese – scomparso con l’Act of Union – un’ampia potestà legislativa. È ben vero che mancando una costituzione scritta e rigida la devolution potrebbe, in via di astratto principio, essere cancellata dal parlamento di Westminster così come è stata concessa.

Ma c’è un impegno politico a non procedere unilateralmente. E proprio nel parlamento scozzese vediamo l’avvio dell’onda lunga che culmina nel voto di oggi.

Nell’assemblea elettiva si consolida e cresce quel partito nazionale scozzese che, vincendo le elezioni nel 2011, apre la strada alle spinte indipendentiste. Il Regno Unito non sarà più lo stesso, che vincano i sì, o i no.

Prova evidente dell’interazione tra politica, istituzioni e assetti costituzionali.

Potrebbe essere esportato l’esempio scozzese? Non è dubbio che la fine del mondo diviso in blocchi, la globalizzazione, i conflitti etnici e religiosi, e ora la violenta crisi economica, hanno ovunque moltiplicato le spinte alla frammentazione. Il modello dello stato-nazione ottocentesco è in crisi. Ma è davvero difficile pensare che la risposta giusta sia nell’esasperazione del “piccolo è bello”.

Da noi, una Lega in qualche affanno vede nel successo dei sì in Scozia la possibilità di riprendere il mantra dell’indipendenza padana. Diciamo subito che la via britannica non è percorribile. Un referendum secessionista locale non è consentito (cfr. corte cost. 256/1989, 470/1992). Del resto, proprio per questo la Lega ha ripetutamente proposto di introdurre in costituzione il referendum separatista. A sostegno si richiama il principio di autodeterminazione dei popoli, sancito dalla carta delle Nazioni Unite (art. 1, comma 2), e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 (art. 1, commi 1 e 3) ratificato dall’Italia con legge 881/1977. Ma un popolo padano non esiste, e un referendum di autodeterminazione entrerebbe in collisione diretta con l’affermazione nell’art. 5 che la repubblica è «una e indivisibile»: uno dei cardini dell’assetto costituzionale non suscettibili di revisione.

E possiamo anche ricordare che – come ha detto la corte suprema del Canada (In re: Secession of Quebec, 1998) per i referendum secessionisti del Quebec – il diritto internazionale non attribuisce un diritto all’autodeterminazione e alla secessione unilaterale a chi si autogoverna in casa propria con ampi poteri. Come è per la Lega.

La Scozia comunque insegna. Il dibattito si è concentrato su temi che qui definiremmo di federalismo fiscale, e sul petrolio del mare del nord. La crisi acuisce ovunque gli egoismi territoriali. Da sola, la regola giuridica non basta. Unità e indivisibilità della repubblica sono un mero flatus vocis senza eguaglianza e diritti. Per il dopo-crisi, fantasia e lungimiranza nell’innovazione istituzionale dovrebbero oggi esercitarsi sul progetto di un paese di – per quanto possibile – eguali. A questo penserebbe lo statista, pensoso delle sorti della res publica. Ma se oggi rinascesse De Gasperi, sarebbe iscritto d’autorità tra gufi e parrucconi.