Europa

Scozia, il referendum fa la differenza

Scozia, il referendum fa la differenzaScozia al voto

Indipendenza La consultazione del 18 settembre è la vera partita. Con implicazioni nel Regno Unito e in Europa

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 22 maggio 2014

Il prossimo 18 settembre sarà una data storica, e non solo per gli amanti di Braveheart. Il referendum scozzese porrà ai votanti una domanda facile nella forma ma complessa nelle implicazioni. Should Scotland be an independent country? È quello che ogni nazionalista scozzese sogna di vedersi finalmente domandare, un quesito per porre il quale Alex Salmond, leader dello Scottish National Party (Snp) e attuale primo ministro, è entrato in politica.

E che suona come un assoluto incubo alle orecchie del premier David Cameron, un uomo che dalle Highlands non potrebbe essere più lontano per estrazione sociale e culturale, lui, un perfetto prodotto degli agi delle Home Counties meridionali (in Gran Bretagna, pur con la decentralizzazione della ricchezza operata dalla globalizzazione, il Sud è ancora ricco e il Nord grossomodo ancora povero). Margaret Thatcher cadde anche per aver imposto la poll tax agli scozzesi nel 1989, diventandone nemico giurato.

Dopo un netto distacco, ora il sì indipendentista ha ridotto notevolmente le distanze soprattutto grazie ai giovani, attestandosi a una percentuale attorno al 40, con i no al 47%. Ma bisogna naturalmente contare ancora i tanti indecisi. Il fatto è che Cameron ha concesso il referendum perché convinto che il no avrebbe prevalso. Per questo si era opposto alla concessione della cosiddetta devo-max, un incremento dei poteri trasferiti a Edimburgo verso la totale autonomia fiscale e che era vista da alcuni come praticabile terza via. Per la stessa ragione Londra ha fermamente respinto la possibilità di mantenere un’unione monetaria con la Scozia se questa diventasse indipendente. «Niente sterlina, siete scozzesi», o giù di lì.

A rincarare la dose ci si è messo anche Jose Manuel Barroso, che è arrivato a dire, lo scorso febbraio, che una Scozia indipendente non sarebbe potuta nemmeno entrare nell’Ue. È chiaro che l’uscita dalla Nato e l’espulsione dei sottomarini nucleari Trident (prima minacciata, poi riveduta da Salmond) non piacciano né a Londra né a Washington.

Il referendum, al quale potrà votare qualunque cittadino dell’Unione Europea o del Commonwealth che viva in Scozia (800.000 scozzesi domiciliati altrove in Uk non potranno votare, contrariamente ai 400.000 non scozzesi ivi residenti), potrebbe porre fine all’Unione dei due paesi, che dopo guerre quasi permanenti, protrattesi dal medioevo, era in vigore dal 1707.

Fino alla scossa degli anni del blairismo, quando la devoluzione, il trasferimento di alcuni poteri da Londra al parlamento di Edimburgo introdotta da un altro referendum nel 1998, ha autorizzato Holyrood, sede parlamentare architettonicamente controversa e dalla costruzione lunga e travagliata, a fissare autonomamente la rata di income tax. Ora al nazionalismo classico di matrice ottocentesca si abbina l’egoismo economico di un ex-periferia in crescita.

Salmond, attento a infarcire di socialdemocrazia (ha un welfare più generoso di quello inglese, pagato, dicono i tories, «con i soldi di Londra») il suo principale obiettivo, ha stravinto le elezioni politiche del 2011 anche grazie alla promessa del referendum, che era la chiave del suo manifesto elettorale. Per Snp l’unione, vecchia di 300 anni, non riflette più le dinamiche moderne di una Scozia che, grazie al petrolio, abbondante nella zona al largo di Aberdeen e al gas, sogna di essere una nuova Norvegia: una piccola nazione padrona della propria ricchezza, capace di lasciarsi alle spalle lo stigma della subordinazione agli ex conquistatori e dell’essere stata soprattutto una vasta riserva di caccia per l’aristocrazia inglese (è il Paese in cui la concentrazione della terra in mano privata è tra le più alte al mondo).

Sarebbe una defezione colossale, che porterebbe con ogni probabilità con sé anche il Galles. Inutile dire che a Westminster stringono i denti. Se i tories non osano nemmeno contemplare l’ipotesi di un Union Jack senza la croce di S. Andrea, la secessione sarebbe un disastro anche per il Labour, che trova in Scozia un enorme, storico bacino elettorale senza il quale può scordarsi di vincere le elezioni politiche future con una maggioranza assoluta.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento