Tra le 12 «regioni» del Regno Unito – si chiamano ancora così, sebbene 3 di loro abbiano parlamenti nazionali – la Scozia è la prima in termini percentuali ad aver votato in maggioranza remain. A seguire Londra, e poi l’Irlanda del Nord, dove la percentuale sfiora il 56%. Il che pone seri problemi agli equilibri di quello che fu il più grande impero coloniale al mondo.

La first minister Nicola Sturgeon, leader dello Scottish National Party, ha già definito un referendum per la permanenza in Europa altamente probabile: «Gli scozzesi vedono il loro futuro all’interno della Ue. La Scozia ha parlato, e ha detto una parola definitiva». Nella sola città di Edimburgo si è espresso per il remain il 74% della popolazione.

La Brexit pare legare il futuro scozzese a quello dell’Irlanda. Spiega Declan Kiberd, uno degli intellettuali irlandesi più influenti: «Wilde e Shaw definirono l’Inghilterra l’ultima e la più ‘penetrata’ delle colonie britanniche, e ora il voto sulla Brexit costituisce la ribellione dei nazionalisti inglesi. Porterà gli scozzesi a un altro referendum per lasciare lo Uk, e Sinn Féin proverà a emularli per ottenere l’Irlanda unita. Questo perché con la Brexit avremo un vero e proprio confine tra nord e sud».

E infatti, anche a Belfast spirano venti di autonomia. I vertici del movimento repubblicano reiterano con forza la richiesta di sondare la volontà della popolazione circa la riunificazione con la Repubblica d’Irlanda. Richiesta giustificata anche dal punto di vista costituzionale. Infatti, il referendum del 1998 che chiamò al voto tutta l’isola su quell’Accordo del Venerdì Santo grazie a cui il Nord Irlanda si è dato un governo misto, parlava chiaro: l’Irlanda del Nord sarebbe rimasta nel Regno Unito fin tanto che la maggioranza della sua popolazione avesse desiderato conservare tale status quo. In caso contrario, entrambi i governi, di Londra e di Dublino, si sarebbero trovarti nell’obbligo di implementare la scelta della popolazione.

Ora, i risultati a Belfast e dintorni sono inequivocabili. Al di là della percentuale generale a favore del remain, è il voto delle singole circoscrizioni a giustificare la richiesta di Sinn Féin. Solo 7 su 18 hanno votato per la Brexit. Alle ultime elezioni, 10 avevano espresso candidati unionisti; dunque il consenso è stato trasversale, e non circoscrivibile alla sola comunità repubblicana.

Ma è nel cuore del repubblicanesimo che la maggioranza è schiacciante. A Derry sono per il remain il 78%, e a West Belfast il 74%. Secondo il coordinatore nazionale di Sinn Féin, Declan Kearney: «Il voto degli inglesi non trascinerà l’Irlanda del Nord fuori dalla Ue, ma dentro», mentre il parlamentare europeo Matt Carthy sentenzia che «il governo britannico non ha alcun mandato per portar via il Nord Irlanda dall’Unione Europea, o ristabilire i controlli al confine tra nord e sud».

Posizione reiterata da Martin McGuinness, vice primo ministro del governo misto: «Il popolo dell’Irlanda del Nord, nazionalisti, repubblicani, unionisti e altri, ha espresso un voto chiaro: vogliono restare nella Ue. Il governo britannico ora deve rendersene conto, e permettere alla gente del Nord di dire la propria sul loro futuro». Parole che hanno suscitato tensioni, come quelle solo all’apparenza algida del primo ministro unionista Arlene Foster: «(McGuinness, ndr) si comporta da opportunista. La gente, negli ultimi anni, ha iniziato a sentire proprio l’equilibrio costituzionale di un’Irlanda del Nord collocata all’interno del Regno Unito».

Dai risultati di ieri non si direbbe. Ma sarebbe un errore credere che le scelte di Scozia e Irlanda siano dettate da un amore per l’Europa, quando invece a guidarle è soprattutto un malessere nei confronti di una Gran Bretagna isolata e chiusa su se stessa. Sempre secondo Kiberd «c’è da augurarsi che la Ue impari la lezione, ma temo che non accadrà: la volontà di umiliare la Grecia, che ha di fatto lasciato campo libero a forze di destra, non incoraggia a sperare».