Dal quinto canto dell’Inferno della Divina Commedia a I fiori del male di Baudelaire, gli uccelli hanno ispirato la letteratura occidentale rimandando alla leggerezza e alla meraviglia. Il loro volo suscita invidia in chi, bipede e implume, sente tutto il peso della forza gravitazionale. A volte, ci si consola grazie a una teoria della natura umana costruita sulla falsariga degli animati dotati di ali: anche noi saremmo orientati, in modo quasi inscalfibile, da una bussola comportamentale inscritta nel codice genetico che ci guiderebbe nel mondo come accade per le migrazioni dei volatili (è il caso della psicologia evoluzionistica e della filosofia che ne sposa le tesi).

Stereotipi in discussione
Il recente libro di Scott Weidensaul In volo sul mondo Le straordinarie imprese degli uccelli migratori (Raffaello Cortina, pp. 458,€ 26,00) mette in discussione alcuni stereotipi: la vita degli uccelli è tutt’altro che pura coincidenza con l’elemento aereo. L’obiettivo è mostrare la complessità di animali spesso sottovalutati: mentre osserviamo gruppi, magari molesti, di storni che assediano la vegetazione urbana o di germani reali che sorvolano qualche parco regionale, siamo portati a ritenerli, insieme al loro volo, un solido fenomeno biologico. Al contrario, cambiamento climatico, antropizzazione delle zone umide, caccia indiscriminata e devastazione di sconosciuti isolotti oceanici (fondamentali per foraggiamento e riproduzione) hanno portato a una riduzione inquietante delle specie migratorie. La maggior parte degli uccelli marini è in difficoltà, tanto che dagli anni Settanta a oggi il loro numero si è dimezzato.

Per mostrare quanto questo faticoso equilibrio ecologico sia oggi in pericolo, il volume si prodiga in una descrizione appassionata, facendo vedere come – al prezzo, forse, di qualche dettaglio narrativo di troppo (una tendenza diffusa nella odierna storia naturale) – le traversie dell’uccello migratore, il volatile per eccellenza, poco c’entrano con le parole chiave cui spesso è associato: facilità, leggerezza, armonia. Per vivere in volo, gli uccelli migratori sono costretti a un tour de force corporeo che coinvolge ogni aspetto della loro biologia. Le sterne artiche volano 91000 chilometri l’anno, dal Maine fino in Australia; le pittime sono protagoniste della più grande migrazione a volo unico conosciuta, un viaggio che dall’Alaska occidentale arriva alla Nuova Zelanda.

Per compiere l’impresa, il metabolismo di questi uccelli è otto o nove volte più alto di quello basale (un ciclista al Giro di Francia arriva a moltiplicarlo per cinque, ricorda beffardo l’autore) con un tasso metabolico che, per 11500 chilometri, è non da maratoneta bensì da centometrista. Per sostenere un simile sforzo, i volatili ricorrono a una continua riplasmazione corporea: raddoppiano di peso accumulando trecento grammi di grasso sui settecento complessivi; intestino e ventriglio si atrofizzano compensando l’ingrossamento dei muscoli pettorali. Una volta giunte dall’Alaska in Nuova Zelanda, le sterne espandono gli organi digestivi per impegnarsi in una nuova fase iperalimentare e poi proseguire verso il Mar Giallo lungo un percorso di 9500 chilometri. Dopo un terzo ciclo di frenesia bulimica, un altro volo di 6500 chilometri li fa tornare al punto di partenza fino alle pendici settentrionali del continente americano.

Le sterne forniscono l’esempio forse più clamoroso di plasmazione somatica, sottolinea Weidensaul, non essendo tuttavia uniche. Una flessibilità fisiologica simile è esibita da specie molto comuni come i tordi o gli uccelli gatto. Durante l’inverno nordico i piovanelli maggiori rimpiccioliscono testicoli non più funzionali; quando raggiungono i luoghi di riproduzione situati in Siberia, gli organi sessuali aumentano di mille volte la propria grandezza. Spesso la finestra riproduttiva è così ristretta che per gli uccelli migratori non c’è il tempo di riposare e nutrirsi in modo soddisfacente. L’accensione di un «interruttore metabolico» consente una rapida accumulazione energetica nei luoghi ad alta densità alimentare, così da procedere all’accoppiamento appena giunti nelle zone adatte alla riproduzione.

Rimodellato a fondo è anche il rapporto tra sonno e veglia, adattati alla necessità di viaggiare per migliaia di chilometri. Le fregate, protagoniste di percorsi di foraggiamento lunghi 2900 chilometri, schiacciano dei «pisolini energetici» (così li chiamano gli ornitologi) di circa 12 secondi approfittando delle forti correnti ascensionali che, dopo il tramonto, si alzano sui flutti marini. Nei loro «addormentamenti emicerebrali» metà del cervello è sveglio, l’altra metà dorme. Anche i germani reali, quando volano in stormi di forma triangolare, tengono acceso l’emisfero posto a controllo dell’occhio che guarda all’esterno del gruppo, mentre resta spento quello che si rivolge alla parte protetta da altri membri della specie. Anche in questo caso, la plasticità fisiologica dei volatili si mostra necessaria non solo durante il periodo del volo ma anche per sfruttare finestre riproduttive rese più brevi dal riscaldamento climatico. Le fregate o piovanelli riducono quasi a zero i tempi dedicati al sonno, passando anche tre settimane consecutive senza dormire, per massimizzare le possibilità di accoppiamento.

Cervello a dimensione variabile
L’aspetto più sorprendente di questo elastico metabolico è che riguarda anche il cervello. Prima di migrare, infatti, il cervello degli uccelli cresce; in primavera si sviluppano le zone neuronali utili alla produzione di richiami sonori. Weidensaul sottolinea un dato in grado di mostrare quanto una simile specializzazione al volo comporti contraccolpi cognitivi non altrettanto invidiabili. In proporzione alla dimensioni corporee, il cervello degli uccelli migratori è più piccolo di quello degli uccelli stanziali: continuamente plasmati dalle condizioni adatte allo spostamento aereo, al foraggiamento e alla riproduzione, gli uccelli migratori fanno dipendere parte delle loro capacità di orientamento da mappe migratorie codificate geneticamente secondo la specie. Questi sistemi automatici di navigazione sono integrati anche da elementi visivi, panorami olfattivi, indizi geomagnetici e, infine, da complessi fenomeni quantistici (il cosiddetto «entanglement»).

Gli uccelli stanziali devono affrontare, invece, una quantità di sfide etologiche disomogenee, prodotte dall’alternanza tra vita in volo e vita arborea: non possono trincerarsi in una specializzazione, plastica, ma pur sempre totalizzante. Quando notiamo in cielo una nube in movimento di rondini, sarebbe dunque opportuno vedere in quelle straordinarie peripezie migratorie non tanto l’agio – sconosciuto ai sapiens – di una abilità innata, quanto il frutto di fatiche che, allo scopo di volare alto, passano per la modellizzazione del proprio corpo stagionale, fosse pure al prezzo della rinuncia a un pezzo di cervello.