In una mattina imprecisata dell’estate 1966, quella in cui l’Inghilterra vince la Coppa del mondo battendo la Germania e i Beatles pubblicano Revolver, due uomini viaggiano seduti l’uno di fronte all’altro in un vagone della metropolitana. Uno dei due legge un libro, l’altro lo osserva con intenzione. La città è Londra e la linea è la Central. Il libro, uscito da Heinemann il 17 luglio, è un grosso romanzo intitolato The Jewel in the Crown. Entrambi scendono a Chancery Lane e prendono la scala mobile. Il lettore sale per primo, l’altro sullo scalino dietro. Racconterà più o meno un anno dopo che il lettore gli era sembrato un avvocato, un uomo di valori imperturbabili e imperturbabili virtù. Confesserà che avrebbe voluto battergli su una spalla per domandargli se il libro gli piaceva, ma aveva prevalso la paura. Del resto nessuna parola, aggiungerà, avrebbe potuto dargli maggiore soddisfazione di guardarlo leggere assorto fino all’uscita. Non sappiamo se il lettore fosse davvero un avvocato, né se abbia amato davvero The Jewel in the Crown. Sappiamo però che lo scrittore Paul Scott, l’uomo seduto di fronte a lui in metropolitana, aveva firmato con quel libro il primo capitolo di un’opera ambiziosa: una tetralogia composta da volumi autonomi ma interconnessi, terminata nel 1975 e denominata The Raj Quartet, la cui statura letteraria sarà riconosciuta soltanto dopo la sua morte.
Per quanto incredulo apparisse l’autore, ormai malato terminale quando otterrà la notorietà insieme al Booker Prize con l’estremo Staying On (1977), non sembra affatto difficile comprendere l’attrazione esercitata dal suo libro, il decimo dall’esordio in versi del 1941, sull’anonimo lettore della metropolitana. The Jewel in the Crown è davvero un romanzo molto bello, stratificato e ricco, bizzarro, a tratti impervio ma dal fascino abbagliante, non di rado ipnotico. Con grande merito l’editore Fazi accoglie la sfida di un narratore quasi ignoto in Italia, rilancia la scommessa di un’ambientazione storica e geografica lontane anche da quell’Inghilterra festante del 1966, riproponendolo in una nuova traduzione affidata a Stefano Bortolussi e intitolata Il gioiello della corona («Le strade», pp. 583, € 20,00). Appena diverso, forse più preciso, il titolo La gemma della corona scelto da Roberta Rambelli per l’unica versione reperibile finora nella nostra lingua, stampata da Garzanti nel 1985. È facile supporre che la pubblicazione seguisse allora la scia della serie televisiva The Raj Quartet trasmessa l’anno precedente dalla BBC, un ulteriore frammento di quell’arazzo orientale su pellicola, estetizzante e à la page, avviato nel 1982 con Gandhi di Richard Attenborough e proseguito nel 1984 con Passage to India di David Lean. Debilitato dalla strisciante amebiasi contratta in India, dove aveva prestato servizio come cadetto verso la fine della seconda guerra mondiale, ma anche dall’alcool che gli era stato indispensabile più tardi per raccontarla, Paul Scott era morto nel 1978 a Londra, la città in cui era nato, per un tumore all’intestino. Aveva cinquantotto anni.
La grande ferita della sua esistenza restava l’abbandono della scuola impostogli dal padre, quando di anni ne aveva diciassette, per un rovinoso dissesto economico. Il trasloco inevitabile in casa delle zie, le liti continue tra le due famiglie, gli insegnarono a osservare ogni evento quotidiano da angolature diverse. Prima di diventare scrittore a tempo pieno sarà contabile, impiegato in una piccola casa editrice, agente letterario. Tra i clienti preferiti ci fu Muriel Spark. Nel suo quartetto, già dopo l’uscita del Gioiello, non vedeva nessuna soggezione alla nostalgia della grandezza imperiale. Pensava anzi che la propria generazione, la stessa di Kingsley Amis, fosse arrivata alla «fine della festa» per cominciare la «rigovernatura». Riteneva privo di senso l’insistito confronto tra il suo romanzo e Passaggio in India di E. M. Forster, che pure molto ammirava: «Se avessi scritto di Nottingham sarei stato paragonato a Lawrence?» chiederà. Immensa e seducente, anche spaventosa, l’India divenne per lui una metafora attraverso cui raccontare il suo punto di vista sul mondo. La scelta di incastonare uno stupro nel centro incandescente e mutevole di Il gioiello della corona, uno stupro non immaginato come nel romanzo di Forster ma crudamente subito, tanto da anticiparlo già nella pagina iniziale, si direbbe contemporanea dichiarazione di appartenenza a una tradizione letteraria e rivendicazione di un opposto modello narrativo. In conformità con la sua visione fluida, eliotiana della storia, il tempo dell’azione – l’ultimo periodo del Raj – risulta congeniale per raccontare non l’India, ma gli inglesi arrivati in India «alla fine di se stessi» e chiamati adesso a intraprendere un rinnovamento radicale.
«Non siamo governati dal passato, né lo governiamo o lo possiamo ricomporre, semplicemente siamo il passato, così come siamo il presente e allo stesso tempo parte del futuro. Suona piuttosto faticoso e lo è. L’unica cosa cui non si sfugge nella vita è la continuità», dirà in una conferenza tenuta durante il suo lungo tour indiano del ’72. Per quanto dissimili, magari lontane benché contigue nello spazio, sono immerse nella continuità le vicende dei personaggi che si snodano intorno a quello stupro: la giovane Daphne Manners vittima della violenza, l’indiano anglicizzato Hari Kumar di cui si è innamorata, l’ambiguo sovrintendente di polizia Ronald Merrick, l’ormai invecchiata e confusa insegnante Edwina Crane, la misteriosa suora laica Ludmila. Attraverso il loro sfiorarsi o scontrarsi l’autore racconta anche il tradimento perpetrato dagli inglesi nei confronti di una colonia troppo a lungo sfruttata e troppo in fretta abbandonata a se stessa. Ma ciò che davvero gli interessa narrare è il terrore e l’attrazione del diverso, la forza magnetica del sesso, lo stordimento della brutalità, l’assuefazione tossica alla prepotenza e all’ingiustizia. Temi in ogni tempo riproposti dalla «continuità» della storia.
In ferrea coerenza con il suo pensiero sul romanzo, Paul Scott edifica una struttura ardimentosa: facendo scorrere il testo tra il 1942 e il 1964 in doppia direzione, affida a un enigmatico «straniero» il compito di ricostruire la vicenda grazie al ritrovamento di pagine di diario, memoriali, lettere, dichiarazioni; però gli inventa una voce che non corrisponde esattamente a quella dell’autore. Ne ricava una psichedelica profondità di prospettiva, uno straniante diorama di visioni sempre frammentarie e discordi, tuttavia mai false. Naturalistico solo in apparenza, lo stile è in realtà vertiginosamente onirico, avvolgente ma ispido, volubile nel ritmo. «E mi permette un’ulteriore considerazione? E cioè che in base alle prove concrete in lei vive anche la consapevolezza che non esiste uno specifico evento storico che abbia un inizio preciso e una fine soddisfacente? Che è come se il tempo si deformasse? Come se i fatti di Bibighar non fossero ancora successi e al tempo stesso fossero già accaduti, così da poter contenere passato, presente e futuro nel palmo di una mano», suggerisce allo straniero la saggia Lady Chatterjee.
Lo smarrimento che penetra nel cuore di chi legge come in quello di colui che narra, la nebbia entro cui scompare ogni riferimento noto, la tenebra dell’esilio dal proprio confortevole orizzonte sono il nodo che Paul Scott ha inteso raccontare. La sua inquietudine è ancora oggi la nostra.