«La vita passa tra le mani, non davanti agli occhi». Espressione materiale e fiduciosa che Alketa Vako, scrittrice di origini albanesi ma da 23 anni residente in Italia, utilizza per descrivere il meccanismo della memoria e dei ricordi nel suo Briciole (Besa editrice, pp. 87, euro 12). Raccolta di racconti brevi che affondano le proprie radici in una terra, l’Albania, tanto cara quanto impastata di storia.
Non è solo intorno alla propria genealogia, in larga parte matrilineare, che Vako intende interrogarsi. In questi diciannove strappi alla comune – e spesso fin troppo retorica – idea di identità, ad affiorare è il senso di un profondo lavoro linguistico, teso a segnalare quanto cruciale sia abitare la mobilità delle parole, ereditate quando remote o imparate in un altro luogo che non sia da subito casa.

CAPELLI CORVINI, sguardo fondo e tagliente, Alketa Vako – che venerdì sarà ospite al convegno organizzato dal Giardino dei Ciliegi di Firenze dedicato al «Fare mondo. Poetica del futuro dimenticato» (dall’8 al 10) – raggiunta per qualche domanda, narra di come abbia combattuto per non cedere all’impoverimento della sua lingua per apprenderne un’altra, con fatica. «È stato un viaggio verso l’ignoto – specifica – sia per l’incertezza di non sapere ciò che ti aspetta, dal mancato riconoscimento degli studi che ho intrapreso a Tirana al ritrovarmi in un posto senza nessun riferimento noto». L’abbandono della sua città corrisponde – nel primo periodo trascorso in Italia – a una sospensione tra due differenti linguaggi, quello materno si sottrae per lasciare il posto a uno nuovo che deve essere abitato.

«Analfabeta. Così mi sentivo, così ero nonostante tanti anni di studio. Il vuoto mi circondava, nonostante tutta la luccicante bellezza, il benessere strabordante e la sfacciata noncuranza di nasconderlo». Passano anni in cui Alketa Vako non scrive più nemmeno una riga, anni di meditazione segnati dalla scelta del disegno che in qualche modo la tiene ancorata a una modalità comunicativa efficace e comprensibile per chiunque.
Lontana la ragazzina che componeva versi nella pienezza di casa, è la stessa però che – diventata grande – vince nel 2009 il Concorso letterario «Lingua Madre» con un racconto tanto enigmatico quanto eloquente: «Fratello Sole, Sorella Luna», ora contenuto in Briciole.Tra spossessamento e assimilazione, l’afasia – al pari di altre passioni della umana condizione – fa da sfondo a un paesaggio ingombro di corpi.

AFFETTIVO è il modo in cui oggi la scrittura di Alketa Vako trova la sua tenuta, attraversa materialità del vivere peregrine che si muovono sempre secondo circostanze precise e parabole minuscole; dal tragitto su un barcone in cui l’occhio si fissa sull’altro che si ha davanti, la camicia quadrettata e il sorriso estenuato, insieme alla imperfezione delle storie che dal Ruanda arrivano ad altri luoghi della migrazione: «Come fa il mare a tenere a galla tutto questo? Infatti il mare ingoia quando non ce la fa».

È il lavoro sulla memoria – «potente come il fuoco e cristallina come il sale che scioglie la neve» – a essere colmo di oggetti: botti, dentiere, borse, pietre o ancora l’uncinetto che «tesseva forme così antiche e nuove da riempire gli spazi vuoti della rete e fremeva con un fervore febbrile sotto le nostre dita stanche, sotto lo sguardo attento delle donne più grandi. Più veloci, ancora più veloci, per accontentare gli occhi, per riempire i cassetti, per colmare il tempo, per temperare la pazienza». E ce n’è voluta molta di indulgenza quando si divideva la solitudine, «la spezzavano come un pezzo di pane», anche per una famiglia greca ortodossa – come quella di Alketa Vako – che ha inteso restare fedele al proprio sdegno orgoglioso, un vanto per non aver ceduto ai Turchi. «Il mio mondo cominciava e finiva con una trina – racconta l’autrice – mi sentivo circondata come il pesce in una rete, larga al punto giusto per non soffocare ma troppo stretta per farmi scappare. Bianca sempre, segno di pulizia, dalle tende delle finestre ai centrotavola, dalle lenzuola e dalle federe ai bordi delle mutandine. La trina definiva gli spazi, creava un confine a modo suo, a chiazze semi impermeabili, semi trasparenti».

LA MESCOLANZA restituita in queste narrazioni brevi, a tratti brevissime, ha i suoi prodromi nella saggezza albanese balcanica da un lato, tramandata fin da un corredo famigliare in cui le parole convocano la forza delle cose stesse, e dall’altro la melodiosità irrinunciabile della lingua italiana. «Ho sempre bisogno di un appoggio caro – prosegue – che individuo spesso in figure come la madre o la nonna, accompagnano il calore del pensiero. Se parlo dell’infanzia non posso che tratteggiare una bambina, così da toccare il circostante prima di scriverlo».

Come in una danza, per Alketa Vako la fascinazione proviene da una confidenza con le parole, amate sia morfologicamente che foneticamente: «rappresentano – chiosa infine – ciò che da piccola credevo poco più che un gioco, propostomi da nonna che mi diceva Mastica la parola! Solo in età adulta ho compreso come in quel trattenimento del masticare fosse custodita anche tutta la responsabilità di dire una parola esatta, efficace, che non ferisca, di cui si riconosca il senso di giustizia ma anche di rispondenza. Ora che vivo in Italia e abito con amore due lingue, mastico il doppio».

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A Firenze un convegno, tra femminismo e postcoloniale per «Fare mondo»

Il convegno che si svolgerà a Firenze da venerdì a domenica, organizzato dal Giardino dei Ciliegi (Via dell’Agnolo 5) in collaborazione con la Società Italiana delle Letterate, si intitola: «Fare mondo: poetica del futuro dimenticato». Molte le studiose, le scrittrici e le attiviste femministe invitate a discutere di ecologia, materialità del vivere, derive neoliberiste e strategie di sopravvivenza. E un metodo: quello dell’intersezionalità, tra codici, linguaggi affetti desideri. Si comincia venerdì alle 15.30, dopo l’introduzione di Clotilde Barbarulli e Liana Borghi concentrate sulle «Utopie del vivere», la prima sessione sarà dedicata al «Comporre una vita», insieme ad Alketa Vako, Pamela Marelli, Elisa Coco, Michela Angelini. Una parte consistente sarà poi dedicata a Donna Haraway, alla sua «convivenza tentacolare» grazie a Lidia Curti e a una relazione di Cecilia Tedeschi sul confronto con Rosi Braidotti. Degli «arcipelaghi alieni» di Leguin e Okorafor parlerà invece Nicoletta Vallorani. Ci sarà posto anche per la memoria palestinese con Olga Solombrino e l’India postcoloniale con Alessandra Marino. Per visionare il programma: http://www.ilgiardinodeiciliegi.firenze.it