Hany Abu-Assad è un grande regista. Ci vogliono talento, e tanto, e una sensibilità speciale per mostrare con l’evidenza della semplicità cosa significa vivere in un luogo senza orizzonte. Quali terremoti produce nella testa e sul corpo la frustrazione di non poter scegliere la propria vita, quanto sia pericoloso e devastante, come la ricerca di un antidoto può rendere deboli e furiosi, inebriati dai lavaggi del cervello più retrivi.

E riuscirci con un cinema che rifiuta schematismi e semplificazioni ideologiche, vivo, commuovente, pieno di passione. The Idol, che come ci dicono le frasi iniziali è ispirato a una storia vera – «ma alcuni fatti sono stati inventati» – racconta la vittoria a The Arab Idol, il più prestigioso talent del medioriente di un ragazzo di Gaza, Mohammed Assaf, che conquista tutti con la sua magnifica voce. E che per arrivare sul palco dell’Opera Hall al Cairo resiste a dolori, tragedie, e soprattutto non si fa spegnere da quella esistenza «negata» a lui come a tanti altri ragazze e ragazzi palestinesi nei Territori occupati. Mohammed e sua sorella Nour vogliono fare musica, lui ha una voce stupenda, lei è determinata, si veste da «maschiaccio» e suona la chitarra elettrica o almeno qualcosa che ci somiglia molto da lontano visto che a Gaza trovare degli strumenti musicali è impossibile. Insieme a altri due bambini hanno fondato una band e cercano di guadagnare i soldi per comprarne di veri.

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«Quando ti ricorderai di essere una femmina?» dice la madre spazientita alla figlioletta che le risponde: «Quando potrò fare quello che voglio sennò mai». Volere è potere recita Nour davanti alle avversità, alla violenza degli adutli, alla loro rassegnazione, a un tempo sempre uguale che inghiotte la gioia. «Diventeremo famosi e cambieremo il mondo» grida al fratello nei momenti di debolezza. Insiste che lui canti, che si alleni, devono arrivare in Egitto, partecipare alle gare, dire che esistono al resto del mondo. Intanto corrono in bici, suonano ai matrimoni, sfidano quel muro che vuole sconfiggerli, renderli come tutti gli altri.

«Mohammed Assaf è riuscito da dare un volto nuovo a un popolo che è stato sempre emarginato e discriminato. In un mondo di guerre civili, rivoluzioni, lotte ed estremismo, la vicenda di Mohammed che da umile cantante nei matrimoni a Gaza riesce a diventare una giovane star di successo, ha regalato ai telespettatori, a ogni puntata, il sorriso e la forza di dimenticare la guerra per un momento. Mohammed è un simbolo, la sua esperienza ha mostrato che i sogni possono trasformarsi in realtà, che l’impossibile può essere possibile» dice Hany Abu-Assad che ha subito desiderato desiderato fare un film da questa storia. Lui che palestinese come il protagonista, arrivato al Festival di Cannes coi suoi film era più felice della vittoria di Mohammed che della sua.

Anni dopo, nel 2012, il piccolo Mohammed è un giovane bello e arrabbiato. Gli amici di infanzia sono finiti barbuti coi gruppi più integralisti, le donne portano il velo, Gaza è sempre più devastata dalle bombe israeliane, il tunnel dove da ragazzini correvano per portare dall’Egitto in città i pacchetti del McDonald’s è chiuso. Loro sono prigionieri in una città prigione davanti al mare senza punto di fuga. L’ira si mischia all lacrime, la paura alla voglia di distruggere, tra quelle macerie è facile inventare nuovi nemici, separare, costruire rivalità e repressione. La musica è sempre di più un’arma per opporsi dalla desolazione, alle prediche integraliste, forse per questo in molti film che oggi raccontano le giovani generazioni tra i conflitti in Medioriente appare come un strumento di rivoluzione: è orizzontale, diffusa nella rete, a largo consumo, si ribella alle censure in nome della religione.

Assad non mostra il conflitto con Israele, le bombe, i soldati la radicalizzazione dei rapporti tra palestinesi stritolati tra le fazioni; tutto questo attraversa i vissuti dei suoi protagonisti e in esse diviene «reale», controcampo del quotidiano allo stato d’eccezione mediatico. E cartina emozionale della geopolitica, intima, profonda, in cui vengono registrati i cambiamenti e gli ostacoli di chi, come Mohammed, è giovane, vuole esistere, vorrebbe essere nel mondo. Assad come negli altri suoi film sceglie la commedia che mischia al melò, alla storia d’amore, al cinema «popolare»: si ride, si piange, ci si diverte, si fa il tifo. È come una canzone, e di vita ce ne è sempre tanta.