Nell’anno 70 d.C. la città di Gerusalemme, tra le più famose e splendide del mondo antico, venne distrutta, dopo un assedio durato circa cinque mesi e un dispiegamento militare imponente: quattro legioni, venti coorti di fanteria, otto alae di cavalleria e diciottomila uomini. A capeggiare l’offensiva fu Tito, figlio dell’imperatore Vespasiano, e destinato egli stesso a succedergli – nell’81 d.C. – alla guida dell’impero. L’incendio del grande tempio, costruito dall’«amico di Roma» Erode il Grande pochi anni prima, segna la conclusione di quella che verrà chiamata la grande rivolta giudaica contro Roma. Da quel momento in poi, cambia radicalmente non solo la storia degli abitanti di quella terra che, sessant’anni più tardi, diventerà la «Palestina», ma anche lo stesso rapporto, improntato a pacifica (seppur interessata) convivenza, che nei decenni aveva legato Roma agli Ebrei prima dell’era cristiana.
Nonostante le fonti antiche non siano interamente concordi sulla natura dell’incendio – intenzionale o scaturito da un incidente –, il futuro imperatore presentò la distruzione del monumento simbolo della religione e della cultura giudaica come una vittoria senza precedenti, degna di essere celebrata con un corteo trionfale che un testimone contemporaneo così descrive: «Era ancora buio quando tutto l’esercito … si era disposto nei pressi del tempio di Iside, dove gli imperatori avevano riposato quella notte. All’apparire dell’alba, Vespasiano e Tito uscirono incoronati d’alloro e rivestiti delle tradizionali vesti di porpora. … Ma quello che più destava l’ammirazione erano gli scenari mobili, che per la loro grandezza facevano temere per la sicurezza del loro trasporto. … Suddivisa in parecchie scene, la guerra vi era rappresentata con la più grande efficacia… l’arte e la complessità delle scene raffigurate erano tali che a chi non aveva visto svolgersi quei fatti sembrava ora di assistervi di persona… Il bottino veniva trasportato alla rinfusa, ma fra tutto spiccavano gli oggetti presi nel tempio di Gerusalemme, una tavola d’oro dal peso di molti talenti e un candelabro fatto ugualmente d’oro, ma di foggia diversa da quelli che noi usiamo. Vi era infatti al centro un’asta infissa in una base, da cui si dipartivano dei sottili bracci simili nella forma a un tridente e aventi ciascuno all’estremità una lampada; queste erano sette, dimostrando la venerazione dei giudei per quel numero».
È un brano della Guerra giudaica (VII, 5) dello storico Giuseppe Flavio (Yosef ben Matatiyahu: Giuseppe figlio di Mattia), nato a Gerusalemme nel 37 d.C. da una nobile famiglia sacerdotale. Dopo aver combattuto contro l’occupazione romana, venne fatto prigioniero. Graziato dall’imperatore Vespasiano, si stabilì – in seguito alla presa di Gerusalemme da parte di Tito – a Roma, dove scrisse in greco le sue opere, di fondamentale importanza, che si leggono, ancora oggi, come un romanzo.
Il candelabro descritto nel brano sul corteo trionfale è, verosimilmente, quello raffigurato nel celebre bassorilievo all’interno dell’Arco di Tito, eretto in onore del condottiero vincitore.
La vittoria militare sugli insorti ebbe come conseguenza la devastazione di Gerusalemme, la morte e/o la riduzione in schiavitù di migliaia di ebrei e il saccheggio di un’intera regione, la Giudea. Ma non solo. Con l’immenso bottino ricavato, i dinasti flavi finanziarono un vasto programma di arricchimento architettonico di Roma, che così si dotò di monumenti straordinari, tra cui il Tempio della Pace, il già citato Arco trionfale e, soprattutto, il più grande anfiteatro del mondo antico, il Colosseo, inaugurato nell’81, appena undici anni dopo la tragedia gerosolimitana. L’iscrizione rinvenuta su un architrave all’estremità orientale dell’edificio non lascia dubbi in proposito: IMPERATOR CAESAR VESPASIANUS AUGUSTUS AMPHITHEATRUM NOVUM EX MANIBUS FIERI IUSSIT (L’imperatore Vespasiano fece erigere il nuovo anfiteatro con i proventi del bottino). Fa riflettere il fatto che il simbolo stesso di Roma, quell’imperituro monumento alla gloria imperiale visitato ogni anno da milioni di turisti, racchiuda la tacita testimonianza della lontana catastrofe che per il poeta e filosofo inglese Samuel Taylor Coleridge rappresentava, insieme «all’omerica guerra di Troia, l’unico soggetto che ci rimane per un poema epico».
All’epopea evocata da Coleridge dedica una lunga e appassionata ricerca Giovanni Brizzi, professore di Storia romana all’Università di Bologna, già noto ai lettori per il suo Annibale, Come un’autobiografia (Rusconi 1994) e, più di recente, per Scipione e Annibale. La guerra per salvare Roma (Laterza 2007). Nel saggio 70 D.C. La conquista di Gerusalemme (Laterza «i Robinson/Letture», pp. 426, euro 24,00) Brizzi, esperto di studi militari, avvia un serrato dialogo con Giuseppe Flavio, che nei suoi testi principali – le Antichità giudaiche e la Guerra giudaica – descrive come la Giudea e i territori contermini si fossero trasformati, passando da stato teocratico sovrano a provincia dell’impero romano. Brizzi ne ripercorre la sequenza cronologica, partendo dal lontano 161 a.C. – quando Roma aveva stretto un’alleanza strategica (in funzione anti-siriana) con la dinastia giudaica dei Maccabei –, per giungere alla catastrofe del 70 d.C. e, ancora oltre, agli ultimi fuochi della resistenza antiromana: quelli definitivamente spenti negli anni Trenta del secondo secolo con conseguente trasformazione – disposta dall’imperatore Adriano – di Gerusalemme in Aelia Capitolina e della Giudea in provincia di Syria-Palaestina (decretando così, per la prima volta, la fortuna di un nome che, nella sua duplice accezione, storica e politica, sopravvive ancora oggi).
Il rapporto tra Romani ed Ebrei, inizialmente segnato da pragmatica e pacifica coesistenza (negli stessi anni in cui Roma celebrava il suo trionfo sulla Giudea capta, nella capitale imperiale viveva da lunghi decenni una comunità ebraica numerosissima, a cui già Giulio Cesare aveva concesso la libertà di culto), si avviò ben presto a diventare, scrive Brizzi, una guerra «ai limiti del genocidio, segnata dalla totale incomunicabilità tra le due parti».
Ma come si giunse a tanto? Quale fu il ruolo, nello scacchiere vicino-orientale tra primo secolo a.C. e primo secolo d.C., di personaggi dall’identità sfaccettata quali Erode il Grande, di prefetti/procuratori romani incaricati di governare la provincia della Giudea, o, ancora, di capi ribelli come Giuda il Galileo, fondatore della setta dei sicari, degli zeloti Eleazar ben Simon e Giovanni di Giscala, e dello stesso Giuseppe Flavio? E quali furono le premesse storico-ideologiche di un conflitto che per gli Ebrei sfociò nella più grave tragedia della loro storia antica e, per Roma, significò la perdita di «buona parte della sua forza militare» e di un «patrimonio non rimpiazzabile di energie vitali» (Brizzi)? L’autore del saggio individua la ragione ultima di quella catastrofe nella irriducibilità delle rispettive fisionomie culturali, nello «zelo ebraico verso la legge divina da un lato, la devozione romana per le umane leggi dell’impero, dall’altro».
Fu «scontro di civiltà»? Semmai fu lo «scontro di civiltà» per eccellenza, sembra suggerire Giovanni Brizzi; la cui indagine ci ricorda come, tra le grandi date della Storia, alcune – rare – superino le altre per rilevanza e «longevità». Il 70 d.C. è una di queste.