Davanti a più di 700 sindaci catalani (su un totale di 900) disponibili a disobbedire al Tribunale costituzionale nonostante le minacce, a un 80% dei catalani (lo dicono tutti i sondaggi) che vorrebbero un referendum, a un governo catalano che dice di essere disposto ad affrontare le conseguenze penali pur di far celebrare la consultazione del’1 ottobre, quale reazione del governo di Madrid può peggiorare le cose? Quella di mandare la Guardia nacional a requisire cartelli elettorali e perquisire tipografie, di ordinare alla procura di interrogare preventivamente tutti e 712 sindaci, di minacciare persino i normali cittadini se si azzardano ad avvicinarsi a un seggio, quella di proibire dibattiti a Madrid o mandare le guardie a evacuare manifestazioni in sostegno al referendum nei Paesi Baschi, o quella di chiudere i rubinetti finanziari, facendo subentrare il governo centrale a quello catalano persino nel pagamento di funzionari e fornitori.

Mancano i carro armati in strada e il salto indietro ai tempi della dittatura franchista è concluso.

Il Partido popular non sembra rendersi conto che l’unico risultato che sta ottenendo è quello di convincere i pochi indecisi di questa pugna polarizzata. Almeno i socialisti lo fanno in sordina: Pedro Sánchez è muto da giorni.

I modi in cui la maggioranza parlamentare catalana aveva approvato la norma istitutiva del referendum e la legge «di transitorietà giuridica» aveva fatto storcere la bocca anche a qualcuno del campo indipendentista perché è chiaro che un referendum senza urne (ancora), senza censo elettorale ufficiale, con metà del parlamento (catalano) contro, con schede elettorali che forse ci si dovrà stampare da soli a casa e senza soglia, molto difficilmente verrà preso sul serio da qualcuno.

Ma il premier Rajoy, venerdì a Barcellona, fra gli applausi entusiasti dei suoi, si vantava delle migliaia di cartelli elettorali sequestrati e minacciava: «Ci obbligheranno a fare quello che non vogliamo fare».

La risposta è arrivata ieri: i 700 sindaci disobbedienti sono stati accolti a plaça Sant Jaume dalla sindaca Colau e dal presidente catalano Puigdemont (le sedi delle due istituzioni sono dirimpettaie nella piazza) tra gridi della folla: «Voteremo» e «indipendenza». Il fronte del voto, aizzato dalle minacce di Madrid, si è ormai allargato ben oltre i movimentisti della Cup (i cui 30 sindaci hanno già detto che hanno cose più importanti da fare che andare a testimoniare davanti ai giudici).

Grazie a Rajoy, Puigdemont ha avuto gioco facile nel proclamare di volere «un paese di uomini e donne liberi, dove la gente possa esprimersi in piena libertà e non si chiudano web o sequestrino riviste perché ci sono articoli che non piacciono alle autorità competenti». «Che non sottostimino la forza del popolo catalano», ha concluso.

La sindaca Colau, che per la centralità della sua posizione politica e per la città che guida viene tirata per la giacchetta da tutti, è ancora una volta riuscita a mantenere il difficilissimo equilibrio. Senza tralasciar di sottolineare che questo «non è il referendum che vogliamo» ha però detto ai 700 sindaci che «è una vergogna avere uno stato incapace di dare una risposta politica ai problemi politici, di sedersi a dialogare e che si dedica a intimidire sindaci e mezzi di comunicazione o che strappa cartelli per motivi politici dalle nostre strade». Aggiungendo:

«Questa non è una questione di indipendenza, è la difesa dei diritti e delle libertà».

C’è un accordo fra Generalitat e comune perché si possa in qualche modo votare anche nella capitale, senza coinvolgere ufficialmente l’istituzione o i funzionari, ma i dettagli li dovrà rendere noti il governo catalano. Venerdì si è chiusa la consultazione dei militanti del partito di Colau: Barcelona en comú parteciperà alla mobilitazione dell’1 ottobre, pur senza schierarsi né per il Sì, né per il No. Un regalone per Puigdemont e i suoi: senza l’appoggio del partito più grande in Catalogna, il 1 ottobre rischia di essere un flop.