Matteo Renzi esce dal primo tempo della partita sul dl lavoro in vantaggio, grazie alla fiducia che verrà votata oggi pomeriggio alla Camera, ma ammaccato, e con la prospettiva di un secondo tempo, quello che si giocherà al Senato entro il 19 maggio, ancora più duro.
Ieri, intorno all’ora di pranzo, il governo ha azzardato l’ultimo tentativo di raggiungere un accordo di maggioranza che evitasse l’onta dell’ennesima fiducia, con tutto quel che questa comporta in termini di immagine negativa. A quel punto l’ala destra della maggioranza, Nuovo centrodestra e Scelta civica, aveva già fatto rullare per ore i tamburi di guerra. Dichiarazioni sempre più incandescenti: prima il corale impegno a votare contro il provvedimento senza la cancellazione delle modifiche apportate dalla commissione lavoro della Camera, poi, addirittura, la minaccia di non votarlo neppure con la fiducia. Inutile anche l’assist del ministro dell’economia Piercarlo Padoan: «Il dl farà crescere l’occupazione». Il vertice di maggioranza con i ministri Poletti e Boschi è stato quindi convocato in fretta e furia ma le posizioni, complice la temperie pre-elettorale, si erano già troppo irrigidite per evitare la lacerazione.
Il ministro del lavoro Giuliano Poletti ci ha provato lo stesso. Ha squadernato una proposta di mediazione in tre punti: derubricazione dall’obbligo di assunzione a una multa della sanzione per le aziende che impiegano più del 20% dei dipendenti con contratti a tempo determinato, o precari che dir si voglia; possibilità per le aziende di scegliere tra formazione pubblica o aziendale e garanzia che non ci sarebbero state ulteriori modifiche al Senato. Non erano concessioni piccole: le aziende, in cambio di una «tangente» pagata allo Stato, pardon di «una sanzione pecuniaria», avrebbero potuto assumere quasi solo precari.
Il Pd, inclusa la sua minoranza guidata dal presidente della commissione lavoro Cesare Damiano, ha accettato la proposta, chiedendo come contropartita di abbassare il tetto dei rinnovi di contratto possibili nell’arco di 36 mesi, portandoli a 4. Il testo originario del governo ne prevedeva 8, la commissione lavoro di Montecitorio li aveva già ridotti a 5. A questo punto è stato l’Ncd di Angelino Alfano a puntare i piedi rifiutando la mediazione. Ha garantito, come anche Scelta civica, il voto di fiducia, promettendo però di «dare battaglia» al Senato.
Nel contempo, Pd e Ncd si accusavano reciprocamente di aver fatto fallire la mediazione, Forza Italia mitragliava il governo affermando, con Renato Brunetta, che il medesimo «non ha più una maggioranza» e, con Maurizio Gasparri, di «aver votato il testo della Cgil». Poletti ha fatto il possibile per gettare acqua sul fuoco: «Le distanze sul merito sono limitate. Resto convinto della necessità assoluta di convertire celermente il decreto».
A fregarsi le mani è soprattutto il Movimento 5 Stelle. In apertura di seduta aveva chiesto di rimandare il decreto in commissione, il che avrebbe comportato la sua probabile decadenza. La proposta non è passata per soli 22 voti, dunque grazie alle assenze nelle file di Forza Italia e della Lega. Così il grillino Di Maio ha avuto buon gioco nell’affermare che «se non ci fosse il M5S il governo, oltre a non avere una maggioranza come dice Brunetta non avrebbe nemmeno un’opposizione». Al Senato , i pentastellati promettono «un Vietnam»: faranno il possibile per dar seguito alla promessa, tanto più che il voto arriverà quasi a ridosso delle elezioni.
Nel merito dell’approvazione del dl, il governo rischia pochissimo. Gli stessi alfaniani, che in pubblico si abbandonano a dichiarazioni ruggenti, in privato ammettono che «il governo non può certo cadere sul dl lavoro». In un modo o nell’altro il decreto sarà dunque convertito, anche se non è affatto escluso che la pressione dei centristi riesca a ottenere alcuni peggioramenti, come se non bastasse la spinta alla precarizzazione già veicolata del testo. In ogni caso, chiederanno in cambio del loro semaforo verde contropartite sul fronte delle traballanti riforme istituzionali ed elettorale.
Il danno d’immagine però è innegabile, anche se Matteo Renzi fa il possibile per volgere la situazione a proprio vantaggio: «Ci si divide su dettagli a cui la gente normale è allergica. Posso capire l’esigenza di farsi propaganda elettorale, ma per noi, di fronte all’emergenza di chi non ha lavoro, l’importante è solo fare presto».