Un «marziano», anche nelle aule di giustizia. La sentenza con la quale ieri la Corte d’Appello di Roma ha condannato per la vicenda degli scontrini, ribaltando l’assoluzione in primo grado, l’ex sindaco Ignazio Marino a due anni di carcere, altrettanti di interdizione dai pubblici uffici e al risarcimento dei danni nei confronti del Campidoglio (da quantificare in sede civile), fa del chirurgo che da due anni è tornato al suo lavoro di docente universitario a Philadelphia un outsider anche in questo campo. Difficile infatti ricordare una vicenda giudiziaria simile per un altro amministratore comunale della Capitale.

Dopo due ore di camera di consiglio, i giudici della III Corte lo hanno riconosciuto colpevole di peculato e falso per aver speso con le carte di credito del Campidoglio 12 mila e 716 euro in 56 cene consumate, tra il 2013 e il 2015 a Roma e in altre città italiane, con commensali che secondo il verdetto non erano affatto interlocutori istituzionali, come sostenuto dall’allora sindaco. Accolta in sostanza la tesi della procura che nella richiesta d’appello aveva annoverato tra gli indizi di colpevolezza il fatto che «26 delle 54 cene avvennero in giorni festivi o prefestivi», circostanza che secondo i magistrati «porta a considerare che si trattò di incontri avvenuti in tempi liberi da impegni istituzionali».

Di qui anche il falso, di cui Marino si sarebbe macchiato per occultare le spese indebite impartendo disposizioni al personale della sua segreteria perché redigesse «atti pubblici attestanti fatti non veri e recanti la sua sottoscrizione apocrifa». Confermata invece l’assoluzione dall’accusa di truffa formulata dalla procura che aveva accusato l’ex sindaco dem di aver procurato un ingiusto profitto alla sua Onlus, Imagine.

«La Corte di Appello di Roma oggi condanna l’intera attività di rappresentanza del sindaco della Città eterna – ha commentato Marino che nel giudizio era rappresentato dall’avvocato Enzo Musco – In pratica i giudici sostengono che in 28 mesi di attività, il sindaco non abbia mai organizzato cene di rappresentanza ma solo incontri privati. Un dato che contrasta con la più ovvia realtà e la logica più elementare. Non posso non pensare che si tratti di una sentenza dal sapore politico proprio nel momento in cui si avvicinano due importanti scadenze elettorali per il Paese e per la Regione Lazio».

Marino, che ha assistito all’udienza e ha lasciato il tribunale senza aggiungere una parola, ha comunicato poi le sue riflessioni in uno nota nella quale si è detto «amareggiato anche se tranquillo con la mia coscienza perché so di non aver mai speso un euro pubblico per fini privati», e ha annunciato che con lo stesso Studio Musco continuerà la «battaglia per la verità e la giustizia in Cassazione».

Come si ricorderà, fu questa vicenda degli scontrini – scaturita dagli esposti presentati in procura dal M5S e da Fratelli d’Italia, ed esplosa nell’ottobre 2015 come caso mediatico di grande appeal – il grimaldello con il quale il Pd cominciò a scardinare la giunta capitolina di Ignazio Marino, scomoda perché troppo a sinistra (la prima testa che volò fu quella del vicesindaco Luigi Nieri, di Sel) e perché in rotta di collisione con troppi potentati cittadini. Marino però fu accusato dall’allora premier/segretario Matteo Renzi di inefficienza e per questo, dopo vari rimpasti e una campagna stampa senza precedenti, fu licenziato con un inedito atto di sfiducia di tutti i consiglieri dem concordato davanti a un notaio.
Ieri «il silenzio del #PDMagnaMagna», come lo ha battezzato il capogruppo del M5S in Campidoglio, Paolo Ferrara, è stato ovviamente notato con sarcasmo dal partito che ha tratto più benefici dalla rovinosa caduta della giunta Marino e che ieri ha colto l’occasione per alzare un po’ di fumo sui problemi giudiziari di casa propria.

Durante l’udienza, davanti ai giudici, Marino aveva voluto ribadire che «mai nella mia vita e nelle mie funzioni da sindaco ho utilizzato denaro pubblico per motivi personali». «Nel 2014 – ha riferito l’ex sindaco alla Corte – ho donato diecimila euro del mio salario alla città e non ho mai chiesto rimborsi per un incontro di lavoro con il presidente della Roma per la vicenda stadio e con il sindaco di New York Bill De Blasio». Il chirurgo, ricordando poi di aver rinunciato alla carica di senatore prima dell’elezione a sindaco e di aver lasciato «oltre ottantamila euro nelle casse pubbliche», ha concluso: «Se sono un ladro, sono uno scemo e incapace di intendere e di volere».