Due giorni, oltre duemila arresti, uno stato blindato e forze dell’ordine costrette a fronteggiare migliaia di fedeli hindu. Succede nell’Uttar Pradesh, India settentrionale, dove a distanza di vent’anni la paura di scontri intracomunitari tra musulmani e hindu è tornata a minacciare la complessa convivenza tra gruppi religiosi.

Nel 1992 una campagna politica promossa dalla destra del Bharatiya Janata Party (Bjp) e appoggiata dalle sigle dell’estremismo hindu era sfociata nella distruzione della Babri Masjid, un’imponente moschea di epoca Moghul eretta nel XVI secolo nella città sacra di Ayodhya. L’oggetto del contendere trova le sue radici in un’interpretazione del poema epico Ramayana: la moschea sorgeva proprio sopra il luogo di nascita del dio Ram, affronto che le migliaia di fedeli hindu riuniti sotto il cappello dell’ideologia hindutva (una sorta di «India agli indiani di fede hindu, cacciamo il musulmano invasore») non potevano più sopportare. Una folla oceanica il 6 dicembre 1992 raggiunse Ayodhya per partecipare a un’inaugurazione «simbolica» del nuovo tempio di Ram, da costruirsi al posto della moschea per riaffermare la supremazia hindu sulle radici islamiche lasciate dagli invasori; ma l’adunata pacifica, si giustificarono all’epoca i quadri del Bjp, sfuggì al controllo dei leader, risultando nella distruzione a mani nude della moschea e negli scontri seguenti tra hindu e musulmani: oltre duemila morti.

Lo scorso weekend la Vishwa Hindu Parishad (Vhp), organizzazione estremista hindu, aveva rilanciato il tema del Ram Janmabhoomi (luogo di nascita di Ram, in sanscrito), inaugurando una nuova carovana politica che fino alla metà di settembre avrebbe toccato «ogni città e villaggio» dell’Uttar Pradesh, raccogliendo adesioni e consensi per ultimare finalmente la costruzione del tempio nell’area contesa. Ma i leader di Bjp e Vhp, assieme a migliaia tra manifestanti, sadhu e attivisti, si sono scontrati con la posizione ufficiale del governo locale guidato dal Samajwadi Party (Sp) degli Yadav, partito che gode del consenso raccolto tra la comunità musulmana e dalle caste basse.

Per scongiurare il rischio di violenze fuori controllo, la polizia ha fatto scattare oltre duemila arresti in due giorni, bloccando manifestanti e leader della destra indiana – compreso il presidente del Vhp, Praveen Togadia – in regime di detenzione preventiva.

Al momento dell’arresto Ashok Singhal, uno dei leader del Vhp, ha dichiarato: «Perché vengo arrestato? Che crimine ho commesso? Qui, in Uttar Pradesh, vige il regime dei Moghul, dove a santi e fedeli viene impedito di professare la loro religione».

All’eco del Bjp, che ha paralizzato i lavori del parlamento denunciando il trattamento riservato ai fedeli, ha risposto il governatore dell’Uttar Pradesh Akilesh Yadav, spiegando che le misure coercitive sono state approvate in quanto l’evento non era di carattere religioso, ma «una scenata politica. Nel nome della religione si è provato a usare santi e fedeli per perseguire obiettivi politici». Secondo Yadav siamo già di fronte alla radicalizzazione dello scontro tra musulmani e hindu, funzionale ai calcoli politici del Bjp per le prossime elezioni del 2014.

La dinastia dei Yadav si riconferma la bestia nera dei movimenti estremisti hindu: nel 1991, quando una prima ondata di fanatici hindu raggiunse Ayodhya guidati dal Supremo del Bjp Lk Advani, il chief minister Mulayam Singh Yadav – padre di Akilesh – ordinò alle autorità locali di fermare la folla anche a costo di ricorrere all’uso della forza, scongiurando il dramma che l’anno seguente riaccese la miccia degli scontri interreligiosi. Un conflitto che in India è ben lontano dall’essere superato.