Giornata di scontri, ieri, ad Haiti. Centinaia di persone sono scese in piazza nella capitale Port-au Prince per protestare contro il governo e chiedere le dimissioni del presidente Michel Martelly. I manifestanti hanno bruciato pneumatici e affrontato la polizia chiedendo un referendum per eleggere nuovi rappresentanti. Da mesi, le proteste aumentano e sempre più spesso le strade di Haiti risuonano al grido di «Abbasso Martelly» e «governo corrotto».

Una crisi scoppiata per i continui rinvii delle elezioni e contro la possibilità che Martelly continui a governare per decreto. Il 12 gennaio scade il mandato di entrambe le camere. In un paese ancora devastato dai postumi del terremoto del 2010 (oltre 220.000 morti in un paese di 10,3 milioni di abitanti), il consenso di Martelly si è andato via via assottigliando. E ora, a sostenerlo è principalmente la Minustah, la Missione di stabilizzazione delle Nazioni unite operativa nel paese dal maggio 2004. I caschi blu sono stati inviati dopo la destituzione dell’allora presidente Jean-Bertrand Aristide a seguito di una ribellione. Il contingente di 8.500 effettivi avrebbe dovuto «garantire al paese una transizione democratica» e salvaguardare le garanzie dei cittadini. Ma le organizzazioni sociali hanno più volte denunciato i continui abusi di quella che percepiscono come una forza di nuova occupazione, uno spreco di denaro che avrebbe potuto essere destinato a risollevare le sorti del paese – uno dei più poveri al mondo. Finora, la missione è costata circa 489 milioni di dollari.

Il picco delle contestazioni contro la Minustah da parte della popolazione haitiana si è avuto dopo la devastante epidemia di colera seguita al terremoto, di cui si è ritenuto responsabile il contingente di peacekiping.
Con questo spirito, il primo gennaio Haiti ha festeggiato i 211 anni dalla liberazione della schiavitù imposta dalla Francia. Il popolo haitiano è stato il primo a ottenere l’indipendenza in America latina, il secondo nel continente americano dopo gli Stati uniti. A quella rivolta e al suo principale protagonista, l’ex schiavo negro Toussaint Louverture, hanno guardato le generazioni di rivoluzionari nel sud del mondo. Haiti è attualmente parte della Comunità degli stati latinoamericani e caraibici (Celac), di Petrocaribe (l’alleanza solidale guidata dal Venezuela) ed è membro osservatore dell’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America (Alba), creata da Cuba e Venezuela. Purtroppo, però, nel paese non è ancora spirato il vento di una nuova indipendenza che ha trasformato il volto del continente con l’elezione di diversi governi progressisti e socialisti.

Dopo il terremoto e il colera, i primi a inviare aiuti senza contropartita sono stati i paesi come Cuba e Venezuela, che da anni lavorano con le organizzazioni popolari sul territorio. Gran parte degli «aiuti», però, sono quelli condizionati dalle grandi istituzioni internazionali, che hanno invaso il paese con migliaia di Ong, il cui tenore di vita costituisce un quotidiano schiaffo all’immensa povertà della popolazione.
Le organizzazioni femministe ( come Solidarité des femmes haitiennes – Sofa -), che purtroppo hanno perso molti dei loro migliori quadri durante il terremoto, denunciano l’aumento della violenza contro le donne, che spesso si perpetra sotto le tende, in cui ancora vive gran parte della popolazione rimasta senza casa. La piattaforma di organizzazioni contadine come 4G Kontre invita ad estendere la mobilitazione e denuncia l’accordo tripartito firmato da Martelly per prolungare ancora il suo potere senza un vero dialogo con le organizzazioni popolari sui problemi reali del paese: «Da vari mesi – scrive 4G – l’amministrazione Martelly alimenta una crisi politica che ha essa stessa creato per permettere la completa ricolonizzazione del paese, un secolo dopo la prima occupazione statunitense di Haiti».