A Hong Kong, adesso, la tensione è quasi al limite. Ieri almeno 100 manifestanti hanno tentato di forzare l’ingresso di uno degli uffici di polizia. Il gesto è arrivato dopo giorni di scontri, duranti i quali si sono registrati arresti e feriti. Dopo settimane di manifestazioni sostanzialmente pacifiche e senza scontri con la polizia locale, le ultime ore a Hong Kong dunque hanno visto un succedersi di eventi, destinati ad aumentare e non di poco il rischio che la situazione possa sfuggire di mano, tanto ai manifestanti, quanto al governo locale.

Se nei primi giorni l’uso di gas lacrimogeni e spray al peperoncino da parte della polizia, aveva causato feroci proteste contro il governo locale (anche perché per molti dei manifestanti si è trattato della prima esperienza di contestazione), nei giorni scorsi si è assistito ad un pestaggio indiscriminato da parte di agenti contro un attivista. La scena, ripresa dalle telecamere di una rete televisiva, è diventata un atto di accusa contro le forze di polizia. Alcuni dei poliziotti responsabili dei pestaggi, dopo la diffusione del video sono stati sospesi. La decisione è stata annunciata ieri dal ministro della sicurezza dell’ex-colonia britannica.

Le immagini sono state girate da un operatore della rete televisiva Tvb ad Admiralty, il quartiere dei ministeri occupato da oltre due settimane dai manifestanti, che chiedono a Pechino di garantire per il 2017 elezioni «realmente» libere nel territorio. La vittima del pestaggio è Ken Tsang, dirigente del «Partito Civico», uno dei partiti pro democrazia di Hong Kong.

Nelle immagini trasmesse da Tvb non è possibile vedere il volto della vittima, ma lo stesso Tsang ha mostrato ai giornalisti i lividi che ha sul volto e sulla schiena in seguito alle botte subite. Le violenze della polizia, che hanno rimosso gran parte delle barricate erette dai manifestanti nei giorni scorsi, sono state denunciate anche dal leader studentesco Joshua Wong. I giovani, ha detto Wong, «hanno perso completamente la fiducia» nella polizia del territorio. Per strada infatti, la situazione non è migliore. Secondo quanto è stato ricostruito nelle scorse ore, l’altro ieri la polizia avrebbe sgomberato i manifestanti dall’interno di un tunnel utilizzato come centro della protesta.

Ci sarebbero stati anche scontri, cui sono seguiti almeno 45 arresti. Il capo della polizia di Hong Kong, Tsui Wai-hung, secondo la stampa locale, ha spiegato ai giornalisti che «i 45 manifestanti erano stati arrestati per riunione illegale e per aver ostacolato l’applicazione della legge da parte della polizia». Secondo fonti locali, però, dovrebbe trattarsi di un’unica azione di intimidazione, perché il governo locale teme che gli arresti possano trasformare gli attivisti in «simboli per la democrazia tra il pubblico più vasto». Nel frattempo proseguono anche le attività dei cosiddetti «anti Occupy»: persone che chiedono un ritorno alla normalità, e a cui si sono uniti filocinesi e membri delle triadi (le mafie locali), che da giorni ostacolano la diffusione dell’Apple Daily, noto quotidiano fin dall’inizio al fianco del movimento Occupy.

E ieri Pechino si è espressa contro Taiwan, per parlare ad Hong Kong: una portavoce cinese ha aspramente criticato oggi il presidente taiwanese Ma Ying-jeuo che, commentando i recenti avvenimenti ad Hong Kong, aveva invitato Pechino ad aprirsi alla democrazia. «La parte taiwanese non dovrebbe fare commenti irresponsabili», ha affermato Fan Liqing, portavoce dell’Ufficio per gli Affari Taiwanesi di Pechino in una conferenza stampa. Ma, che segue una politica di distensione e collaborazione con la Cina, ha commentato le manifestazioni pro-democrazia di migliaia di cittadini di Hong Kong ricordando che trent’anni fa l’allora leader cinese Deng Xiaoping aveva sostenuto che con le riforme economiche «qualcuno si sarebbe arricchito prima degli altri». «Perché ora, qualcuno – cioè Hong Kong – non può avere la democrazia prima degli altri?», si è chiesto il leader taiwanese. E Il Quotidiano del Popolo di Pechino ieri ha confermato la fiducia del Partito comunista nel capo del governo locale, o «chief executive», Leung Chun-ying, la cui popolarità è fortemente calata non solo per i pestaggi della polizia, ma anche per uno scandalo di corruzione reso noto proprio nel bel mezzo delle proteste.

Da un sondaggio pubblicato dal South China Morning Post risulterebbe inoltre che la «numero due» Carrie Lam e il responsabile delle finanze John Tsang sarebbero più popolari del «chief executive».