Gris comincia con una lacrima e un canto che si spezza in un rantolo, un sussurrato epicedio numerico che ci precipita negli abissi luttuosi del dolore che affligge la psiche di una giovane donna, non un videogioco se non in superficie ma un’esperienza virtuale dolorosa e nel contempo bellissima che ci risuona nel cuore con la sublime gravità malinconica della Nenia di Friedrich Schiller musicata da Johannes Brahms: “…Perché il bello tramonta e muore la perfezione”. E la fanciulla, ammutolita, distrutta dalla sofferenza di chissà quale lutto, precipita dentro se stessa, così annichilita da non essere più nulla, azzerata in un triviale, silente grigiore. Durante un visionario viaggio di poche ore aiuteremo la fanciulla a ricomporre la sua anima devastata e a ricostruire il suo senno afflitto.

Sviluppato dallo spagnolo Nomada Studio e distribuito da Devolver Digital per Switch Nintendo, PC e MacOs, Gris è una preziosa opera indipendente da consumare in un pomeriggio, naufragando e riemergendo nel suo muto ed ermetico mondo di simboli e allusioni, trovandovi corrispondenze con la propria storia interiore. Tuttavia il grigiore iniziale tende progressivamente a colmarsi di nuovi colori, prima il rosso, poi il verde, il blu e il giallo, la speranza tenta di risorgere sebbene si affermi con le nuove tinte anche il nero, minaccioso e pericoloso.

La dimensione interiore bidimensionale di Gris è dipinta con gli acquarelli e animata con un’arte che da vita a movimenti e forme d’altissimo splendore cromatico; raccontare l’universo di un subconscio illustrato è difficile quanto descrivere un sogno quasi estinto dagli albori, perché la rappresentazione si confonde con l’immaginazione e il “gioco” diviene soggettivo, incomunicabile.

Ci ricordiamo di acquerellate meraviglie in un incessante chiaroscuro tra beltà e inquietudine, come le foreste di flore geometriche, le solenni architetture impossibili di effimere cattedrali, le colossali statue femminee infrante in relitti sospesi, le acquatiche cave dove vegetano strane alghe che sembrano fluttuare contro-corrente, le ascese e le cadute attraverso macchie accecanti di nubi.

Gris mantiene, in maniera minimale, le dinamiche ludiche del “platform” a due dimensioni e si salta quindi, si cammina, talvolta si nuota o ci si trasforma in una cubica roccia. Non combattiamo mai, sebbene ci capiti raramente di fuggire da abominevoli oscurità che prendono la forma di un passero abnorme o di una famelica, mutevole murena. Ci limitiamo a risolvere enigmi ambientali stimolanti (la logica e la ragione del puzzle contro il buio irrazionale della paura e del dolore), ma pensati per non essere mai troppo complessi, affinché non arrestino la progressione di quest’avventura della mente disegnata, musicata e programmata con tanta arte.

Come Amaterasu, la fantasiosa dea di un favoloso immaginario nipponico che divenne lupo bianco in quel capolavoro dell’avventura “zeldiana” che è Okami di Capcom, anche la fanciulla di Gris riporta le tinte in un mondo afflitto e scolorito, ma senza un magico pennello divino, solo con la ragione che con ostinazione e coraggio sconfigge quel sonno che genera mostri. Il mondo di Gris è inoltre un paesaggio interiore, dove tutto tace, dove non ci sono parole ne’ spiegazioni. Sono le immagini a parlare e la musica angosciante o consolatoria, talvolta epica in maniera mesta.

Come nella storia della musica, in quella dei videogiochi ci sono le grandi sinfonie oppure l’operetta, smisurate opere wagneriane o melodie triviali. Gris, come tante altre meraviglie indipendenti, è musica da camera, un quartetto per archi o una sonata per pianoforte. Musica solo apparentemente più piccola. Non è la “grandeur” che rende migliore un videogioco, non c’è alcuna differenza tra la sinfonia dei Mille di Gustav Mahler o un improvviso di Franz Schubert, come non ce n’è tra un Red Dead Redemption 2 o Limbo. Ciò che conta è l’idea e importano davvero solo la passione e l’arte utilizzate per realizzarla e condividerla.