Per František Kupka le radici dell’astrazione, di cui fu uno dei pionieri accanto a Kandinsky, Mondrian e Malevic, vanno ricercate nella sua prima formazione boema: nel 1888, a diciassette anni, venne in rapporto con Alois Studnicka, direttore della Scuola normale di arti e mestieri di Jaromer, che, nel prepararlo all’esame di ammissione alla Scuola di belle arti di Praga, gli fece assorbire i fondamenti di un’idea «ornamentale» della forma che doveva orientarlo su una lettura del simbolismo, mondo di riferimento della sua giovinezza, basata sui valori autonomi della linea e del colore. È più che una tentazione vedere in questa esperienza il primo atto di un pensiero visivo che si rivelerà appieno solo nel Salon d’Automne del 1912 (quando Kupka già da sedici anni era di stanza a Parigi) con Amorpha, chromatique chaude e Amorpha, fugue à deux couleurs, le due prime opere astratte esposte nella capitale francese.
Possiamo apprezzare davvero questa preistoria del pittore ceco solo oggi, fino al 30 di luglio, con la mostra celeberrima del Grand Palais (Kupka. Pionnier de l’abstraction) che, sotto la direzione scientifica di Brigitte Leal, Markéta Theinhardt e Pierre Brullé, poggiando sulle notevoli raccolte del MNAM di Parigi, del MoMa di New York e della Narodni Galerie di Praga, cerca di scartare dal precedente parigino del 1989 al Musée de la Ville, dove l’approccio formalistico impediva di considerare ponderatamente le singole tappe di uno sviluppo ricco e originale.
Un esempio è il focus sull’attività di illustratore per le riviste satiriche parigine, dove è possibile trovare, a parte il vigore del disegno e il grottesco dell’immaginazione (quel mostruoso Mammona che tiene nella gran pancia cumuli di monete luccicanti: «Assiette au Beurre», L’argent, 11 gennaio 1901), qualche accenno di ricerca futura. Condivisa con maestri come Villon e Gris, quest’attività di carattere «alimentare», da Kupka in seguito spregiata, è del resto al centro di una nuova considerazione critica, che cerca di trarla fuori dalla sua funzione servile.
L’astrazione è fatto continentale: a Parigi l’arte di Kupka, sebbene in dialogo con i movimenti di ricerca, resta una vicenda relativamente isolata, se non meteoritica. È apparso chiaro fin da subito, e ce ne dà acuta testimonianza la migliore letteratura critica dell’epoca, come il cubismo, anche nella sua forma ermetica, lungi dal troncare il rapporto con la realtà, intendesse potenziarne la percezione e i significati. Dal cubismo Kupka non trae dunque alcuna indicazione operativa, solo lo slancio verso una radicalità di sguardo. D’altra parte ai cubisti era socialmente legato, non ai fondatori Picasso e Braque, ma ai cosiddetti «cubisti da Salon», coloro che, a partire dalla fatidica sala 41 del Salon des Indépendants del 1911, cominciarono a pubblicizzare a Parigi il verbo nuovo. In particolare, Kupka era in rapporto con i fratelli Duchamp, soprattutto i due maggiori, Jacques Villon e Raymond Duchamp-Villon, che gli erano più vicini generazionalmente, e con i quali aveva condiviso, nel 1906, la scelta di abbandonare Montmartre per isolarsi, in piccole unità circondate da un giardino, a Puteaux, 7, rue Lemaître, dove l’atelier di Villon sarebbe divenuto, a partire dalla primavera 1911, luogo nevralgico della nuova avanguardia, con le sue dimanches. Qui prese corpo l’idea della mostra, abbastanza fatidica, della Section d’or, che nell’ottobre 1912, alla Galerie La Boétie, sventagliava in modo non troppo programmatico le diverse opzioni espressive generate dal cubismo, tra le quali Apollinaire isolò una linea, che chiamò «orfica», esclusivamente basata sul colore di costruzione, entro la quale si situa l’arte di Kupka.
La ricostruzione storica di questo problema è ancora accidentata: in un saggio che compare nell’ottimo catalogo (Réunion des musées nationaux, pp. 302, euro 49,00), Brullé legge Kupka Sous le signe de l’orphisme e de la peinture pure ricordando come proprio in relazione a tre sue opere esposte alla Section d’or (in mostra, ipnotiche, due: Complexe e Compliment) Apollinaire aveva enucleato l’idea orfica e come resti enigmatico, di conseguenza, il suo silenzio sul pittore allorché diede alle stampe, nel 1913, Les Peintres cubistes, dove divulgava quell’idea. Nello «squartarsi» del cubismo durante il biennio cruciale 1912-’13, c’è posto, scrive il critico-poeta, per un’«arte pura», realizzata «con elementi attinti non dalla realtà visiva, ma interamente creati dall’artista e da lui dotati di una realtà possente», un’arte «inventata» da Robert Delaunay e «alla quale tendono» Léger, Picabia, Duchamp. Brullé si chiede se l’assenza del nome di Kupka non sia dovuta a Kupka stesso, alla sua anarchia, alla sua allergia per gli -ismi, così abbondanti in quella stagione, e, ancora prima, per ogni forma di intruppamento militante: forse. Comunque è nel Salon des Indépendants del 1913 che l’orfismo si rende davvero leggibile: qui i francesi vengono affiancati, in schiera, dagli americani Bruce, Frost, Russell, Macdonald-Wright.
Se Delaunay porta a conseguenza estrema l’autosufficienza del colore, e realizza in modo organico la possibilità insita nei contrasti simultanei di creare spazio senza ricorso all’elemento plastico-volumetrico o prospettico, nondimeno la sua astrazione, come scrisse Guy Habasque nel 1959, «è un fattore realistico», «un mezzo nuovo (…) per tradurre la vita moderna». Al contrario Kupka, simile in questo a Picabia, intende costruire un universo di forme esclusiva proiezione della sua interiorità, «una specie – come lui stesso si esprime – di geometria pittoresca dei pensieri». Non è un caso che Delaunay sia passato attraverso il cursus regolare dell’avanguardia parigina d’anteguerra, dal pointillisme al cubismo, mentre in Kupka a monte della svolta orfica c’è un cammino molto più personale e sconcertante, ben descritto in catalogo da Rodolphe Rapetti, tutto all’insegna del simbolismo, da quello, ‘realistico’, di Böcklin, che stimola la sua vena bislacca e burlesca (Epona-Ballade. Les Joies, 1901), a quello, preparatorio della stagione astratta nell’individuazione di determinati nuclei visivi (il globo), e espresso soprattutto dalla produzione grafica, facente capo a Redon (la serie di incisioni in acquatinta Les Nénuphars, 1900-’02).
C’è poi la funzione Mallarmé, scrittore di cui Kupka era infatuato (anche in relazione a Poe, che Mallarmé aveva tradotto), al punto da progettare una pubblicazione illustrata delle sue opere, poi abortita, per la quale realizzò almeno quaranta disegni. Questa funzione spinge il simbolismo del pittore, già nutrito di spiritualismo a base naturista e teosofica, a trascendere i problemi legati al soggetto, proponendosi come eminente dispositivo formale: le individuazioni particolari della realtà tendono a confondersi in un’«unità costruttiva universale», come in L’Eau, 1906-’09, dove «pietra, carne, acqua, atmosfera, luce dipendono dalla medesima origine» (Rapetti). Di qui è logico l’approdo all’astrazione, intesa dall’artista ceco – che ne gettò le basi teoriche in una serie di note 1907-’13 pubblicate poi a Praga nel 1923 col titolo La Création dans les arts plastiques – come sistema combinatorio di diversi «agenti e fattori» pittorici.
Brullé aveva spiegato, nella voce di catalogo dedicata a Kupka in occasione della mostra La section d’or (Chateauroux, 2000), come il valore espressivo e simbolico da lui attribuito a questi agenti e fattori fosse prossimo alle teorie dinamogeniche di Charles Henry, che avevano ispirato i neoimpressionisti, in base alle quali ogni direzione di linea e soluzione cromatica suscita un determinato stato d’animo. Kupka: «C’è, nella verticale, tutta la maestà della statica. Essa contiene, al tempo stesso, l’alto e il basso, li riunisce, ma divide lo spazio orizzontalmente. Riprodotta in una serie di parallele, la verticale diviene un’attesa angosciante e muta che si diffonde all’orizzontale». Si può fare, o credere di fare, questa esperienza dinamogenica nel settore della mostra dedicato ai Plans verticaux, 1912-’13, così come, subito prima, un’altra, di tenore opposto («curve = movimenti liberi», «ovoidi = gesti sereni», secondo una classificazione di Kupka), dinanzi alla dinamica rotatoria e spiraliforme delle due tele Amorpha, 1911-’12, e similmente per ciascuna delle serie cui l’artista lavorò fino al 1957, anno di morte, ognuna articolata intorno a uno specifico codice geometrico, combinato o alternato con forme irregolari, organiche, entro la «dualità essenziale», che tutto comprende, «quella del “circolare”, arabesco, e del “rettilineo”, à plat» (Brullé).

Forme organiche: un interesse particolare rivestono per Kupka i processi biologici (Conte de pistils et d’étamines, 1919-’20), come ampiamente documentò l’importante personale del 1924 alla Galerie La Boétie, la stessa in cui si era tenuta La section d’or. Questa parte della sua produzione, impregnata di memorie «ornamentali» mitteleuropee, è stata letta negli anni cinquanta, forzatamente, come un anticipo sull’informel. Sembra piuttosto esprimere il registro sauvage ben presente nella personalità di Kupka, e assolvere, in questo senso, una funzione di ‘scarico’ a fronte della tensione ‘intellettuale’ che comportava il lavoro di astrazione geometrica.
Kandinsky troppo romantico, Mondrian e Malevic troppo «cubisti», Kupka contempera nell’astrazione, con luccicante equilibrio, i moti soggettivi e la necessità assoluta di ordinare le forme. Posizione cruciale nel canone novecentesco, ma – vedi il saggio Orphisme di Virginia Spate, 1979 – soprattutto in relazione al tratto 1910-’14, quando Kupka giunge a realizzare senza scarti l’idea baudelairiana di pittura-musica, con le sue «fughe cromatiche», i colori chiamati a squarciare, diremmo, il silenzio degli spazi cosmici; meno quando, via via a seguire, sviluppa quel modo un po’ troppo seriale di organizzare i pensieri geometrici, secondo categorie (il macchinismo) o emergenze stagionali, come l’adesione nel 1931 al gruppo Abstraction-Création, di cui fu uno dei fondatori. Qui il suo contributo, pur sublime per nudità di ortogonali e diagonali, diviene meno personale e troppo neoplastico: Kupka, ricordiamolo, era stato amico di Theo Van Doesburg, che nel 1926 aveva pubblicato in «De Stijl» i suoi Plans verticaux III.
La sorgività della stagione orfica è magistralmente presentata nel cuore della mostra. Dopo un’energica fase fauve, ecco, cerniera cruciale, il Grand nu. Plans par couleurs, 1909-’10: Kupka spiega come la posa – statica, monumentale, solenne – possa essere dinamizzata dalla simultaneità dei colori-luce: è in anticipo sui futuristi e sul Nu di Duchamp, scrive in catalogo Brigitte Leal, che sottolinea il rapporto con la radiografia e la cronofotografia. I piani già vibrano e, subito dopo, ecco i due Amorpha: la percezione è sinestetica. Quanto a ‘sonorità’, e ad autonomia di linguaggio, l’artista più prossimo a Kupka in questo momento è Francis Picabia, le cui danze di colori, sebbene più accusate plasticamente, si rivelano altrettanto libere dal pregiudizio cubista. Poi la strada si divarica: Picabia fuoriesce giocoso nella vita, Kupka si barrica eremitico nella forma.