Lo sciopero generale di Cgil e Uil è finalmente arrivato a rompere la solitudine delle molte lotte che dentro questa lunga crisi sono state «l’urlo nel silenzio» della politica di un lavoro che non accetta la semplice riduzione a merce tra le merci del lavoro umano. La svalutazione del lavoro come necessità ineluttabile, come condizione permanente dell’economia. Questo, nella crisi, è il tratto ideologico che si è affermato.

Fino ad immaginare che i governi nazionali, dentro la cornice delle politiche d’austerità e dei vincoli di bilancio europei – contro cui fino ad oggi è mancato un vero movimento di massa per modificare trattati e accordi verso il lavoro-, non possano che diventare esecutori disumanizzati. In assenza di qualunque verifica concreta sugli effetti di frantumazione sociale e personale che queste politiche generano sulle comunità e sulle persone, espropriandole, sempre più spesso, anche del senso di una vita, quando le si sradica nel lavoro e dal lavoro.

In questi ultimi giorni assistiamo al dispiegarsi nel nostro Paese di queste politiche «contro il lavoro», il Jobs Act ne esprime a partire dalla forma, con il suo «abuso» di delega al governo, un concentrato significativo. Oggi, anche dopo il decreto Poletti sui contratti a termine, 8 ingressi al lavoro ogni 10 restano temporanei, i nuovi contratti, se paragonati al trimestre precedente, si contraggono di 190 mila unità, un calo che riguarda tutte le tipologie di assunzione, mentre prosegue il trend negativo dei licenziamenti: 217.000 in tre mesi e in presenza dell’articolo 18 light versione Monti/Fornero.

L’ ultimo studio della Uil denuncia che, per il combinato disposto tra lo sconto Irap, permanente, e la riduzione dei contributi previdenziali per i neoassunti, in vigore fino al 2017, l’effetto del licenziamento post art. 18 a indennizzi crescenti (non a tutele crescenti) sarebbe quello di rendere conveniente per le imprese licenziare gli eventuali neoassunti più che stabilizzarli, questo perché si tratta in ogni caso sempre di contributi senza vincoli, senza riserve né a stabilizzare o ad assumere, né per premiare aziende che investono.

Se il lavoratore venisse licenziato a fine anno l’indennizzo, e perciò il costo per l’azienda, si aggirerebbe intorno ai 2.538 euro lordi: il ’saldo’ per l’impresa dunque sarebbe positivo per 4.390 euro. Un vantaggio che aumenterebbe, se il lavoratore, sempre assunto il 1 gennaio 2015, venisse invece licenziato nel terzo anno: i benefici fiscali per l’azienda, su un reddito di 22 mila euro, ammonterebbero a circa 20.790 euro mentre il costo dell’indennizzo sarebbe di 7.600 euro lordi, con un ’vantaggio’ per l’impresa di 13.190 euro. Esattamente il contrario di quello ’stimolo’ all’occupazione stabile sbandierata con il Jobs Act.

Tanta determinazione contro il lavoro grida «vendetta» di fronte all’impotenza nell’aggredire i 60 miliardi all’anno di corruzione delle tante «terre di mezzo» di cui i fatti di Roma rappresentano solamente l’ultimo episodio. È questa incapacità e il livello raggiunto dalla corruzione che bloccano il paese, impediscono gli investimenti e minano la convivenza sociale e la credibilità di politica e istituzioni. Non i diritti dei lavoratori.
Il governo con la scelta di non «ascoltare» le parti sociali, cioè i lavoratori subisce la pressione della «parte più forte», quella delle associazioni d’impresa, si sostituisce nel ruolo di controparte e perde la sua funzione di mediazione tra interessi diversi.

Anche per questo lo sciopero generale di oggi è necessario perché ricostruisce partecipazione e rappresentanza sociale, andando oltre gli insediamenti tradizionali del lavoro sindacalizzato, ridando voce e visibilità al precariato.

Precariato che è sempre più una condizione universale, che ridefinisce rapporti di forza in un conflitto destinato a crescere anche perché ciò che si muove e si mobilita è ancora privo di una rappresentanza politica adeguata, ciò che è accaduto in parlamento al di là delle giuste e generose battaglie o è troppo poco in termini di forza o è troppo manovriero e timido e ragiona su tempi che potrebbero essere troppo lunghi e fuori sintonia con le mobilitazioni in campo.

Lo sciopero generale dà forza alle nostre battaglie e chiederà continuità, contro il pareggio di bilancio, per un piano del lavoro (New Deal), ricostruisce solidarietà per nuovi diritti da conquistare oltre le solitudini. Immaginando un altro mondo possibile che metta al centro le persone, riconosca i limiti energetici e ambientali del pianeta, e il lavoro per il bene comune oltre le diseguaglianze. Buon sciopero generale!