Più di cento detenuti sudanesi, tra i quali esponenti politici di alto profilo, da ieri sono in sciopero della fame. Compie così un ulteriore salto di qualità la protesta contro il colpo di stato dello scorso 25 ottobre con cui le forze armate guidate dal generale Abdel Fattah al Burhan hanno posto fine all’accordo di condivisione del potere con i civili del 2019 raggiunto dopo la rimozione del presidente Omar al Bashir. L’annuncio del digiuno è giunto mentre i sudanesi piangevano la morte di altri due giovani uccisi dai militari durante le proteste di lunedì contro il golpe. Altre decine di persone sono state ferite. Un primo dimostrante è stato colpito a morte a Khartoum, il secondo a Omdurman. Dal 25 ottobre oltre 80 civili sono stati uccisi dal fuoco delle forze sicurezza.

Non si arresta l’ondata di arresti fra rappresentanti dell’opposizione e del governo pre-golpe, come il membro del precedente Consiglio di transizione Mohamed al Faki e l’artista Mazen Hamed. Al Faki è noto per aver guidato il Comitato per la rimozione del potere (Erc), organismo istituito allo scopo di recuperare al controllo dello Stato una serie di imprese, immobili e grandi patrimoni posseduti illegalmente da uomini di Al Bashir. La scorsa settimana erano stati arrestati altri oppositori dei militari, tra i quali Al Tayeb Osman Youssef, Wagdi Salih e l’ex ministro Khalid Omer Yousif. Sono almeno 145 i prigionieri del regime militare.

Unione europea e i governi di Canada e Svizzera nei giorni scorsi hanno espresso «preoccupazione» per gli arresti in Sudan e chiesto «l’immediato rilascio di tutti coloro che sono detenuti ingiustamente». A stretto giro è arrivata la replica del governo fantoccio messo in piedi da Al Burhan che ha respinto le accuse definendole una «palese ingerenza negli affari interni del Sudan». Il generale punta a una restaurazione a piccoli passi del passato regime anche perché i militari non hanno alcuna intenzione di abbandonare le posizioni di potere che per oltre trent’anni avevano consolidato sotto Al Bashir. Per questo al Burhan il 12 febbraio si è schierato pubblicamente contro la riforma dell’esercito e lo smantellamento delle famigerate Forze di supporto rapido. «Nessuno può parlare di ristrutturazione delle istituzioni militari, ad eccezione delle forze che verranno scelte dal popolo attraverso le elezioni», ha tuonato. Le forze armate sudanesi, sul modello di quelle egiziane, possiedono industrie, non solo militari, aziende agricole e dell’estrazione mineraria.

Al Burhan e il suo braccio destro, Mohamed Hamdan Dagalo, si sentono più forti rispetto a qualche settimana fa. Sanno di non essere isolati, di godere delle simpatie di diversi governi mediorientali e che gli Usa, in cambio di rassicurazioni sulla politica estera filoccidentale del Sudan golpista, non accresceranno le pressioni per una svolta democratica. Nei giorni scorsi Dagalo ha visitato Abu Dhabi e, con ogni probabilità, anche Tel Aviv, mentre a inizio settimana Al Burhan ha esaltato la cooperazione di sicurezza avviata con Israele.