Giovedì 27 ottobre 2005, Clichy-sous-Bois, periferia nord di Parigi. Due ragazzi di 15 e 17 anni, Bouna Traoré e Zyed Benna, muoiono fulminati nella centralina elettrica in cui si erano nascosti per sfuggire a un controllo di polizia. Quella stessa notte i roghi delle automobili in fiamme illuminano i cieli sopra Clichy, e successivamente investono i comuni limitrofi per estendersi infine alle banlieues dell’intero paese.

Nelle successive tre settimane, tutta la Francia è investita da un’impressionante ondata di disordini: assalti a edifici pubblici e a mezzi di trasporto, auto date alle fiamme, saccheggi e scontri con la polizia investono oltre trecento comuni. Per la prima volta nel dopoguerra, il governo dichiara lo stato di emergenza, e i maggiori canali tv censurano i propri servizi per inibire la proliferazione di comportamenti emulativi. Si contano oltre duecento milioni di danni, 8.720 veicoli dati alle fiamme, 3.101 fermi di polizia, 274 edifici distrutti, numerose centinaia di feriti e sei morti. Solo dopo ventun giorni di sommossa, il 19 novembre, l’indicatore delle violenze – il numero di auto incendiate – torna sotto il livello di guardia, la media «normale» di 98 veicoli a notte.

Morti e tumulti
Giovedì 4 agosto 2011, Tottenham, area nord di Londra. Nel corso della campagna Trident contro il crimine armato, durante un controllo stradale, la polizia spara e uccide Mark Duggan, ventinovenne padre di quattro figli e assai noto nel quartiere – ove era cresciuto nella Broadwater Farm, già teatro nel 1985 di violenti scontri fra la comunità nera e le forze dell’ordine. La veglia di protesta per l’accaduto degenera in un tumulto che è all’origine di una delle più intense sommosse della storia britannica. Nella domenica l’intera capitale è attraversata da saccheggi di massa, scontri, devastazioni e incendi di edifici pubblici e privati. Nei quattro giorni successivi le violenze investono le principali città del Regno Unito, ove migliaia di giovani si riversano nelle strade attaccando i commissariati di polizia con armi e bottiglie incendiarie, dando alle fiamme mezzi di trasporto e 231 unità residenziali, razziando e saccheggiando circa 48mila esercizi commerciali, scatenando riots che provocano 200 milioni di sterline di danni, oltre cinquemila fermi, centinaia di feriti e cinque morti. Analizzando le rappresentazioni e interpretazioni di questi due avvenimenti, (si può) indagare il tumulto metropolitano come fenomeno sociale, politico e culturale. Non si tratta di «scoprire» le cause «sottese» o le radici nascoste di tali fenomeni, ma piuttosto di interrogarne i significati politici dal punto di vista della società in cui essi avvengono.

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Dall’inizio degli anni Ottanta, tumulti urbani sono avvenuti con regolarità nelle banlieues francesi, nelle inner cities britanniche e nei «ghetti» etnici statunitensi. A partire dallo Scarman report sul tumulto di Brixton del 1981,1 i riots hanno cominciato a divenire oggetto di ricerca, e i principali studi sono stati condotti da sociologi che hanno promosso indagini empiriche volte a collocare e comprendere le violenze nel contesto locale in cui avvengono. Le prime ricerche hanno perciò studiato i riots focalizzandosi sulle condizioni economiche, l’ambiente sociale, le comunità, le storie locali del contesto in cui i disordini hanno preso forma – tentando cioè di spiegare le violenze situandole nella specifica congiuntura sociale, politica, economica e culturale.

Le dinamiche
Questo approccio ha indubbiamente prodotto studi preziosi, ancora oggi indispensabili per la comprensione dei tumulti urbani, ma nel nostro tempo tale postura analitica pare scontrarsi con ostacoli ermeneutici crescenti. In primo luogo, negli ultimi quattro decenni le sommosse urbane si sono diffuse in modo considerevole, scatenandosi all’interno di congiunture economiche, sistemi istituzionali e contesti locali molto differenti ma riproducendovi le medesime dinamiche.

Secondariamente, l’estensione temporale e la diffusione spaziale senza precedenti del tumulto francese del 2005 e di quello inglese del 2011 sembrano aver messo fortemente in discussione il valore euristico di un approccio centrato esclusivamente sul contesto locale, suggerendo perciò l’opportunità di guardare non solo alle specificità dei singoli eventi, ma anche e soprattutto alle caratteristiche comuni del fenomeno.

La prima di esse è la collocazione urbana: i riots sono sempre e anzitutto urban riots. E questo indica l’opportunità di considerarli anche come aspetti di un più ampio processo che vede l’ambiente urbano divenire la spazialità quintessenziale dei conflitti sociali contemporanei, differentemente da quelli del passato che investivano invece contesti più specifici come i luoghi di lavoro o di formazione.

I tumulti metropolitani debbono cioè anzitutto essere collocati e compresi nel più vasto campo dei mutamenti delle percezioni dell’ambiente urbano e del suo rapporto con la violenza, valorizzando la dimensione delle rappresentazioni sociali e delle immagini delle città contemporanee. Secondariamente, i tumulti metropolitani condividono di solito uno stesso trigger event, una medesima «scintilla»: un giovane, quasi sempre appartenente a una minoranza etnica, ucciso dalla polizia in una dinamica che richiama il contemporaneo dibattito sullo «stato di eccezione» come paradigma di governo degli spazi urbani. E anche le forme di violenza che rispondono a tale evento scatenante condividono molti tratti comuni: azioni notturne rivolte prevalentemente contro polizia, istituzioni ed edifici pubblici, negozi, automobili private e mezzi del trasporto pubblico.

Una violenza spettacolare, resa «telegenica» dal massiccio uso del fuoco e dal saccheggio, esaltata dal sensazionalismo mediatico attraverso la riproduzione di evocative immagini di disordine che sono al tempo stesso immagini brutali e immagini di spazi urbani post-industriali. Come sottolineano Chabanet e Royall, in terzo luogo, i rioters «non chiedono nulla di esplicito né rivendicano una specifica identità»: questo ostinato silenzio pubblico, il rifiuto di esprimere le ragioni e le cause della loro violenza costituisce un aspetto chiave del fenomeno.

Senza le parole
Tale mancanza di rivendicazioni, organizzazione, leader e political entrepreneurs incarna anzitutto un significativo ostacolo alla comprensione dei tumulti metropolitani attraverso il paradigma delle «risorse di mobilitazione», che costituisce l’approccio analitico dominante ai fenomeni di protesta e di violenza politica. E poi, il rifiuto degli attori di violenza di farsi anche attori di parola, il loro ostinato silenzio pubblico fa sì che gli urban riots siano sempre accompagnati dai paper riots: da conflitti volti ad attribuire significato politico all’avvenimento, da battaglie simboliche intorno alla sua interpretazione, da dibattiti e dispute pubbliche volte a colmare il vuoto di senso lasciato dall’assenza di parola e di rivendicazioni da parte dei protagonisti delle sommosse.

«Bestie feroci»
Un quarto tratto comune è il carattere «irrazionale» che tali dibattiti tendono ad ascrivere a queste forme di violenza. Ciò abilita la loro descrizione attraverso un vocabolario naturalistico – i riots vengono paragonati a «uragani», «terremoti», «tornado» eccetera – o attraverso il riferimento ai barbari: «la mancanza di spiegazioni logiche delle rivolte – spiega Didier Chabanet – è servita anche a giustificare i paragoni con comportamenti propri del mondo animale, come l’uso della metafora del ’branco’, e di qui molti giornalisti inglesi hanno attinto a termini come ‘irrazionali’, ‘barbari’ o ‘bestie feroci’ per descrivere i riots del 2011».

Durante i disordini francesi del 2005, per esempio, parte del dibattito si è concentrata sul fatto che i giovani banlieusards distruggevano i loro stessi spazi urbani e l’ambiente in cui vivevano; mentre nel 2011 molti giornali hanno paragonato la violenza irrazionale che investiva le strade della capitale all’uragano Katrina, oppure all’andamento impazzito dei mercati finanziari durante quegli stessi giorni di agosto. Si tratta di rappresentazioni significative perché hanno l’effetto di confinare tali avvenimenti al di fuori del campo del politico. Il tumulto metropolitano viene cioè solitamente costruito come un evento caratterizzato da alti livelli di violenza senza senso e senza scopo, spontanea e disorganizzata, spesso perfino autodistruttiva: un evento assai poco razionale e perciò privo di significato politico.

Queste quattro caratteristiche comuni dei riots appaiono particolarmente significative e ricorrono in episodi differenti nel tempo e nello spazio, segnalando così alcuni limiti di un approccio circostanziale ed esclusivamente empirico allo studio dei tumulti urbani contemporanei. Queste stesse caratteristiche, in particolare l’ultima, permettono d’altra parte di evidenziare anche dei limiti propri di alcune interpretazioni più squisitamente teorico-politiche del fenomeno.

In ragione dei tratti irrazionali dei tumulti urbani, tali interpretazioni tendono solitamente a riconoscere nei riots dei fatti politici significativi ma, allo stesso tempo, a negare loro la rilevanza di atti politici e la possibilità di scorgervi una fattispecie emergente della violenza politica.

In assenza di analisi
I teorici della politica sembrano piuttosto riluttanti a concettualizzare come fenomeno politico le sommosse urbane i cui tratti risultano difficilmente leggibili attraverso i paradigmi della moderna razionalità strumentale e molte delle categorie canoniche di analisi dei fenomeni di violenza, conflitto e soggettivazione politica. Osservando i tumulti metropolitani del nostro tempo, insomma, sia gli approcci empirici che quelli più teorici, sia la sociologia che la filosofia politica, fanno esperienza delle difficoltà di presa analitica delle proprie categorie su alcuni aspetti del fenomeno – in particolare sui profili irrazionali o non-strumentali di queste violenze.

L’insieme degli elementi indicati suggerisce la necessità di articolare un’intersezione dinamica, un’alchimia, un bricolage fra differenti metodi e prospettive disciplinari per indagare i significati politici di cui i riots sono portatori nell’esperienza metropolitana contemporanea. Spunti preziosi in questa direzione vengono dalle ricerche del team guidato da Stuart Hall nella ricerca sul mugging (furto con pestaggio) diffusosi nelle città britanniche nella seconda metà degli anni Settanta.

Policing the Crisis (1978) si proponeva allora di «studiare il mugging come un fenomeno sociale dal punto di vista della società in cui esso avviene», evidenziando il rilievo epistemologico cruciale del modo in cui erano costruite le rappresentazioni sociali nella sfera pubblica, mediatica, politica e intellettuale; e giungendo così a ricostruire dinamiche di «moral panic» destinate a ricorrere e dilatarsi di fronte ai successivi sviluppi della violenza urbana.