È ora di mettere seriamente mano al destino di Cassa Depositi e Prestiti, trasformatasi nell’arco degli ultimi 15 anni in una sorta di fondo sovrano tentacolare, che agisce – a volte su mandato del Governo, a volte per motu proprio – sempre in direzione della penetrazione dei grandi interessi finanziari privati sull’economia e la società. Eppure la storia e la missione di Cassa Depositi e Prestiti sono state radicalmente altre per oltre 150 anni: raccogliere e garantire il risparmio postale dei cittadini (oltre 20 milioni di persone che le hanno affidato 250 miliardi) e utilizzare questa enorme massa di liquidità per finanziare a tassi agevolati gli investimenti degli enti locali.

Una funzione pubblica e di interesse generale, svanita nel 2003 con la trasformazione di Cassa Depositi e Prestiti in società per azioni (dunque rivolta al profitto) e con l’ingresso nel suo capitale sociale delle fondazioni bancarie.

Oggi Cassa Depositi e Prestiti finanzia la svendita del patrimonio pubblico dei Comuni e la privatizzazione dei servizi pubblici locali, in un contesto dentro il quale gli enti locali, dissanguati dal patto di stabilità e dal pareggio di bilancio, asfissiati dai tagli alle spese e agli investimenti, sono stati ridotti a promotori del saccheggio dei beni comuni da parte delle lobby immobiliari e finanziarie.

Nel contempo, l’azione di Cassa Depositi e Prestiti si è estesa a tutti i gangli dell’economia, della quale è rimasta l’unico colosso finanziario in grado di investire con un raggio a 360 gradi, ma senza nessuna strategia di medio e lungo termine decisa da una qualche assemblea elettiva (il Parlamento, che dovrebbe controllare e indirizzare, spicca per la totale assenza di discussione).

Intanto, il collasso del sistema bancario privatizzato (l’Italia è l’unico Paese che è riuscito a passare dal 74,5% di controllo pubblico sulle banche nel 1992 all’attuale zero assoluto) continua a drenare risorse pubbliche (ad oggi siamo ad oltre 30 miliardi) per “salvataggi” che non modificano alcun assetto strutturale, bensì perpetuano l’espropriazione di ricchezza collettivamente prodotta e il suo trasferimento alle lobby finanziarie. Senza una nuova finanza pubblica nessuna trasformazione del modello economico e produttivo sarebbe possibile e le decisioni di lungo termine sulla società rimarrebbero comunque appannaggio delle lobby finanziarie.

Qui entra in campo il destino di Cassa Depositi e Prestiti, per la quale va pensata una scissione strategica in due settori: uno legato alle partecipazioni societarie e all’intervento nell’economia, che dovrebbe avvenire sotto la direzione del Parlamento e dopo un’ampia discussione nella società sulla riconversione verso un nuovo modello economico che sia ecologicamente e socialmente orientato; il secondo legato all’urgente necessità della creazione di un servizio pubblico per risparmi, credito e investimenti, gestito territorialmente con il coinvolgimento diretto dei cittadini. Si tratta non di proporre una burocratica e, data l’attuale dislocazione dei poteri reali, inefficace nazionalizzazione, bensì di un processo di riappropriazione sociale della ricchezza prodotta.

Processo che può essere innescato solo da una forte e reticolare mobilitazione dal basso, che coinvolga cittadini organizzati, enti locali, settori produttivi territoriali, sindacati e lavoratori delle banche nella definizione di una finanza come “bene comune” e di una gestione partecipativa della stessa.

Socializzare subito la parte di Cassa Depositi e Prestiti che gestisce il risparmio dei cittadini vuol dire ripensare il ruolo del risparmio postale, la cui funzione sociale va collocata nei territori per svolgere la funzione di finanziare a tassi agevolati gli investimenti -pubblici e sociali- la cui destinazione sia il frutto di processi partecipativi delle comunità locali. Si tratta semplicemente di riappropriarsi di quello che ci appartiene. E di pensare ad un futuro fuori dall’austerità liberista.