Un buffet e otto giovani ricercatori. Otto brillanti menti, cresciute in uno dei sistemi formativi più efficienti d’Europa, accompagneranno il visitatore in un viaggio scientifico a partire da ciascun cibo offerto.
È così che il World Food System Center (Wfsc), centro di avanguardia della scienza alimentare fondato nel 2011 dal prestigioso Politecnico di Zurigo, l’Eth, al top dell’eccellenza mondiale, parteciperà per una settimana (dal 29 giugno al 4 luglio) agli eventi dell’Expo 2015. D’altronde, l’entusiasmo degli svizzeri per l’appuntamento di Milano è stato evidente fin dai blocchi di partenza.

Primo Paese ad aderire e primo – già a fine gennaio – a chiudere i lavori del padiglione costituito da quattro torri-silos riempite di acqua, sale, rondelle di mele e caffè (della Nestlé, principale sponsor), prodotti tipici della Confederazione elvetica offerti gratuitamente ai visitatori, che dovranno rifornirsi però con responsabilità, sapendo che le risorse non sono infinite e dunque vanno sfruttate con parsimonia. «Il tema di come sviluppare sistemi alimentari sostenibili è una delle sfide più grandi che si pongono al momento, per questo è nato il Wfsc, formato da 37 gruppi di ricercatori che rappresentano 7 dipartimenti diversi del Politecnico, a riprova che la complessità del problema alimentare richiede uno studio interdisciplinare», spiega Anna Katarina Gilgen, del Centro di competenza per il sistema dell’alimentazione mondiale del’Eth. E allora si può partire da una forma di Raclette, uno dei formaggi più rinomati del cantone tedesco, per indagare la catena di trasmissione dello iodio dalla mucca all’uomo, perché la carenza nel suolo di questo elemento fondamentale per il buon funzionamento della tiroide è tra i problemi sanitari maggiori in Svizzera, come peraltro in molti territori montani.

«Il latte è una fonte essenziale di iodio ma dalla stalla alla tavola la concentrazione dell’elemento può subire notevoli alterazioni», spiega Valeria Galetti, la ricercatrice del dipartimento Salute del Politecnico che presenterà a Milano questo studio. «Abbiamo appena cominciato ma in due anni ci prefiggiamo di fornire raccomandazioni per ottimizzare l’alimentazione delle mucche e il processo di lavorazione dei latticini, in modo da standardizzare il contenuto di iodio nei prodotti caseari».

Valeria Galetti è ticinese ma è attorniata da studenti, professori e dottorandi che arrivano al Politecnico da 110 Paesi diversi del mondo. E ed è tutt’altro che raro trovare nelle posizioni apicali alcuni dei 10 mila circa «cervelli in fuga» dall’Italia. Italiano, anche se non «in fuga», è il presidente dell’Eth, Lino Guzzella. Come italiana è la professoressa Chiara Daraio, laureatasi ad Ancona e chiamata a Zurigo dal California Institute of Technology, dove insegnava, per condurre un laboratorio di ricerca sull’innovazione dei materiali: «Uno dei nostri progetti attualmente più promettenti – spiega – è uno studio di ingegneria bionica che parte dalla cellule staminali del legno per produrre una sorta di cyberwood, un legno cibernetico che funziona come un sensore termico e può, per esempio, percepire la presenza di persone o tracciare il percorso di chi lo calpesta».

Un’eccellenza, quella della scuola universitaria di Zurigo, alla cui base c’è però un sistema di formazione tra i più efficienti d’Europa. «In California – continua Daraio – è facile trovare venture capital, finanziamenti privati per le start-up, ma il progetto deve essere in fase avanzata, mentre in Svizzera c’è molta disponibilità anche da parte dei privati a finanziare la ricerca di base. È per questo che l’Eth ha risorse incredibili, perfino comparate agli Usa».

Non va dimenticato che la Svizzera vanta un Pil pro capite tra i più alti del continente e negli ultimi anni l’economia elvetica ha registrato un trend positivo migliore di quello del resto d’Europa. Ma per Geraldine Savary, Consigliera di Stato e presidente della Commissione scienza, educazione e cultura del Consiglio degli Stati, il nostro Paese può fare di più: «Il consiglio migliore che mi sento di dare all’Italia è di riuscire a collegare l’economia alla formazione, attivando un trasferimento di competenze fra questi due ambiti», afferma Savaray. Un concetto che da noi è stato sviluppato solo a destra, con la promozione di un sistema formativo assoggettato completamente ai desiderata del capitale privato. Ma dal punto di vista di Berna «economia e innovazione vanno di pari passo», perciò il sistema formativo svizzero, simile a quello austriaco e tedesco, è duale e prevede percorsi flessibili e integrati tra il lavoro e lo studio (che godono di pari dignità) a seconda delle esigenze e delle aspirazioni di ciascuno studente.

A 15 anni, il 65% degli adolescenti svizzeri inizia l’apprendistato a tempo pieno in un’azienda privata per arrivare ad ottenere un diploma professionale e il più delle volte anche la successiva assunzione in loco, il 10% sceglie una scuola professionale che prevede comunque un part-time di apprendistato, e solo il 20% si iscrive al liceo. In tutti i casi si ottiene un titolo di studio e si può continuare la formazione fino a una laurea breve o ad un master accademico.

Le aziende non ricevono un franco per l’apprendistato degli studenti ma ne ottengono invece prestigio, riconoscimento sociale ed eventualmente personale ben formato. «Sono i cantoni a finanziare la formazione, a qualsiasi livello, e la ricerca. Mentre dal governo confederale arrivano stanziamenti solo per un 20% dei costi dell’università e della ricerca, in modo da concentrare lo sforzo maggiore sui progetti migliori, quelli selezionati a livello europeo – spiega Mauro Dell’Ambrogio, segretario confederale di Stato per la Formazione, la ricerca e l’innovazione – Per legge, è proibito dare soldi pubblici alle imprese private. Risultato: il 3% di disoccupazione sale al 4% per quella giovanile. La nostra mobilità sociale è più elevata che altrove, e non di rado nei ruoli più prestigiosi delle istituzioni si trovano persone che hanno cominciato la formazione con l’apprendistato».

Ma, ammesso di condividere l’entusiasmo, sarebbe mai possibile esportare questo modello in Italia? «È un po’ come esportare la democrazia – risponde con un tocco di malignità il liberale radicale Dell’Ambrogio -: è un sistema che non è concepibile se non si assume tutto il resto: il federalismo, la perequazione finanziaria tra i cantoni, il fatto di non aver mai distrutto il sistema delle corporazioni e delle professioni artigianale. Infine, cosa fondamentale, tutto questo è possibile solo se non c’è disoccupazione. In Italia invece l’apprendistato sarebbe usato dalle aziende per sfruttare la manodopera. E i lavoratori sarebbero ulteriormente sottopagati».