Lo scorso aprile, migliaia di americani sono scesi in strada per prendere parte alla «Marcia per Scienza», la prima mobilitazione mondiale in sostegno della ricerca e in chiara opposizione alle politiche con cui Trump sta osteggiando un settore da tempo in difficoltà. Secondo l’American Association for the Advancement of Science, mentre il budget per la scienza e la tecnologia 2019 non subirà tagli drastici come inizialmente proposto, le politiche sull’immigrazione del nuovo presidente rischiano ugualmente di indebolire la competitività americana, arrestando il prezioso flusso di cervelli che da anni convoglia nei prestigiosi istituti statunitensi.

Il tutto in un momento in cui l’emorragia di talenti è già cominciata e non solo per colpa di Trump. Come spiega il Financial Times, sull’altra sponda del Pacifico investitori privati e statali cinesi stanno creando fondi di venture capital per richiamare in patria neolaureati e giovani accademici espatriati negli States. Complici l’aumento dei salari, migliori prospettive lavorative e la nostalgia di casa, sono sempre di più i cinesi a lasciare la Silicon Valley per affiancare Baidu, Alibaba e Tencent nella realizzazione del «Sogno cinese».

Dando voce alle preoccupazioni di molti, alcuni giorni fa Jack Clark, ex giornalista prestato all’intelligenza artificiale (AI), lamentava ai microfoni del New York Times la frammentarietà delle politiche governative e l’assenza di «una strategia nazionale centralizzata». Ciò su cui invece sta lavorando alacremente quella che Trump ha bollato come «la potenza rivale» numero 1.

Nel 2013, la spesa destinata da Pechino alla ricerca e allo sviluppo (R&D) ha superato per la prima volta il budget stanziato dall’Europa, arrivando a contare per il 20% di quanto sborsato a livello mondiale. Secondo recenti stime del ministero della Scienza e della Tecnologia, oltre la Muraglia, il sostegno economico all’R&D ammonta ormai a 276 miliardi di dollari, pari al 2,12% del Pil, in linea con quanto destinato dai paesi sviluppati. Entro il 2020 ci si attende il definitivo sorpasso sugli Usa, già slittati al secondo posto per numero di brevetti e pubblicazioni scientifiche.

«Gli Stati uniti continuano a essere leader mondiale nel campo della scienza e della tecnologia, ma il mondo sta cambiando», spiega alla rivista Nature Maria Zuber, esperta di geofisica presso il Massachusetts Institute of Technology, commentando i dati della US National Science Foundation (NSF) che pongono la Cina a quota 426mila pubblicazioni contro le 409mila dei colleghi statunitensi. Comprensibile, se si considera che il gigante asiatico guida la classifica mondiale anche per numero di studenti universitari iscritti in ingegneria e ai corsi scientifici.  È dal 2005 che Pechino pianifica la propria ascesa. Quell’anno, il XVI Congresso nazionale del Partito ha varato il «Programma nazionale di medio e lungo termine per lo sviluppo della scienza e della tecnologia (2006-20)» con l’obiettivo di accelerare la «modernizzazione socialista» e trasformare la Repubblica popolare in un importante centro d’innovazione entro il 2020; ovvero quando l’establishment prevede verrà raggiunto il traguardo di una «società moderatamente prospera».

Il concetto è stato ribadito con la pubblicazione del 13esimo piano quinquennale 2016-2020 e la promozione di una serie di progetti collaterali, dal famigerato «Made in China 2025» (per rilanciare il manifatturiero), all’Internet Plus (che prevede l’applicazione dell’IT all’industria convenzionale) fino ad arrivare al più recente New Generation AI Development Plan, un’ambiziosa road map con cui Pechino punta a divenire il primo centro per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale nel 2035.

Sono sforzi che vanno letti alla luce del «new normal», il nuovo modello economico orientato verso una crescita qualitativa (anziché quantitativa) che impone l’archiviazione del vecchio «Made in China» in favore di un nuovo «Created in China». Non a caso sono le province più povere del paese ad essere state prescelte come hub della rivoluzione tecnologica.

Per il gigante asiatico è una questione di stabilità sociale, sicurezza e prestigio nazionale. L’intelligenza artificiale riassume tutte e tre le funzioni con la sua versatilità tanto nella semplificazione dei controlli nelle stazioni ferroviarie, quanto nella modernizzazione dell’industria bellica e nello spionaggio dei segmenti sociali potenzialmente destabilizzanti, come dissidenti e minoranze etiche.

Mentre sfumature marcatamente patriottiche le ritroviamo nel denso programma spaziale che nel 2013 ha permesso a Pechino di effettuare i primi rilevamenti sulla luna in quasi 40 anni.

È una delle molteplici sfaccettature della «rinascita nazionale» promossa dal presidente Xi Jinping con l’intento di rianimare quella vivacità intellettuale che secoli fa portò alla realizzazione di importanti scoperte scientifiche, dalla carta alla polvere da sparo. Prima che la decadenza imperiale e la Rivoluzione Culturale ponessero una pietra tombale sulla creatività cinese, cedendo lo scettro all’Occidente.

Quello stesso Occidente oggi osserva intimorito la palingenesi cinese prendere forma. Non solo per via dei 100 miliardi di dollari iniettati in fusioni e acquisizioni tecnologiche sui mercati internazionali dal 2014 a oggi.

A impensierire è soprattutto la facilità con cui Pechino è in grado di dribblare questioni etiche e di privacy, come nel caso tanto del sistema orwelliano dei «crediti sociali» quanto dell’impiego dell’editing genetico su malati di cancro ed embrioni. Dando voce alle preoccupazioni internazionali, tempo fa G. Owen Schaefer della National University of Singapore sottolineava come l’utilizzo della ricerca per miglioramenti genetici potrebbe regalare alla seconda potenza mondiale «significativi vantaggi nazionali» sul piano della crescita economica, della performance nelle gare sportive internazionali e persino dell’ordine pubblico, riducendo il tasso di criminalità e aumentando la competitività della popolazione cinese sullo scacchiere globale.