Il più grande romanzo di fantascienza, nell’opinione di Philip K. Dick, è il libro dei libri, la Bibbia, e molto di biblico ha, per mole e ispirazione, l’Esegesi, la sua opera definitiva o almeno testamentaria: ottomila fogli di appunti più o meno compiuti, scritti un po’ a mano e un po’ a macchina. Un guazzabuglio nel quale convivono filosofia e esoterismo, deliri onirici e romanzeschi, pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti a decenni di distanza dalla morte del suo autore (e tradotto ora da Maurizio Nati, per Fanucci, pp. 1312, euro  50,00).

Questa sorta di «diario notturno» – come lo ha definito Jonathan Lethem, curatore dell’immenso corpus insieme a Pamela Jackson – tenne impegnato Dick dal 1974, anno in cui ebbe visioni trascendenti che lo turbarono profondamente: può essere considerato alla stregua di un testo sacro e, nella sua sconsiderata ambizione di ridefinire la verità del mondo, la bibbia ideale della fantascienza.

Uno stretto legame unisce infatti questo genere letterario alla religione, forse perfino più stretto del legame decisamente appariscente che lo vuole discendere dai lumi della ragione. Il nocciolo di molti classici, dal Ciclo delle Fondazioni, alla saga di Dune, a quella cinematografica di Guerre stellari, emana una tensione mistica più o meno voluta ma sempre molto forte, tanto che parlare di fantareligione sarebbe forse più aderente ai contenuti effettivi. Era dunque nell’ordine delle cose, se non esemplare, che dalla fantascienza nascesse una religione vera e propria, la famigerata Chiesa di Scientology cui Lawrence Wright ha dedicato un’ampia e illuminante indagine giornalistica.

Il titolo originale del libro, Going Clear, è anche quello di un discusso documentario di Alex Gibney fatalmente centrato sugli aspetti sensazionalisti di una realizzazione deviata del sogno americano, vale a dire le discusse vicende che hanno consentito a un’impresa miliardaria di crescere sulle bizzarre fantasie di un ex scrittore di fantascienza.

Del resto, non cedere al sensazionalismo nell’indagare un mondo come quello di Scientology è ai limiti dell’impossibile, poiché significa entrare nella mente e nella torbida vita di un uomo, il suo fondatore, che ha investito gran parte della sua esistenza a falsificare la propria biografia.

È dunque a dir poco esilarante che la Chiesa di Scientology abbia lanciato strali, sostenendo che Going Clear non è un documentario bensì pura fiction perché tratto da un libro basato su rivelazioni mendaci di apostati, contenente «oltre 200 errori e travisamenti dei fatti». In realtà, La prigione della fede (Adelphi, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, pp. 529, euro 28,00) risponde alla migliore tradizione del giornalismo anglosassone: Wright si attiene strettamente ai fatti, astenedosi da qualunque giudizio. È una strategia di avvicinamento all’oggetto della indagine che ricorda quello del precedente libro dedicato all’attacco dell’11 settembre, Le altissime torri, grazie al quale Wright vinse il Pulitzer per la saggistica del 2007.

Tracciare un ritratto complessivo delle persone coinvolte, evitando qualunque ricostruzione speculativa e lasciar parlare i fatti affinché le persone rivelino la propria natura: in questo consistono, in sostanza, il metodo e il fine del libro.

Nel caso di Scientology, malgrado le nebbia fittissime, un fatto è pacifico: il suo fondatore era mosso da brame di ricchezza. «Mi piacerebbe fondare una religione. È così che si fanno i soldi» disse in più di una circostanza, rivelando dunque una natura ben diversa da quella di Philip K. Dick, che non soltanto visse in condizioni molto precarie ma vide in Dio opportunità esclusivamente filosofiche. Esistono ovviamente altri elementi del carattere di Ron Hubbard che possiamo dare per assodati e che emergono con chiarezza dal libro di Wright. Per esempio, è vero che la sua vocazione religiosa era del tutto strumentale ma, per giunta, Hubbard tutto aveva fuorché i tratti del santo. Era un despota per natura, un imbroglione seriale, un poligamo violento che rapì una delle figlie per poi dire alla madre che l’aveva tagliata a pezzettini e gettata in un fiume. Nella richiesta di divorzio, la seconda delle sue tre consorti dichiarò di essere stata picchiata, strangolata, sottoposta a torture sistematiche e sedicenti espertimenti scientifici. Hubbard era insomma un sibarita che adorava abusare delle donne, ed era convinto che ad affollare le prigioni e i manicomi degli Stati Uniti fossero i mancati aborti di madri inibite.

Altro fatto accertato è il numero dei titoli fornito dal Guiness dei primati nell’edizione del 2006: i suoi 1804 ne fanno l’autore con più libri pubblicati al mondo. La stessa Chiesa di Scientology stima che, tra il 1936 e il 1936, come scrittore di narrativa, abbia tenuto un ritmo di centomila parole al mese. Tale era la sua velocità che mise a punto una tecnica molto simile a quella usata in seguito da Jack Kerouac per scrivere Sulla strada: battere a macchina su rotoli di carta da macellaio. «Quando un racconto era finito, strappava il foglio con una riga a T e lo spediva all’editore».

Tanta prolificità obbligò Ron Hubbard all’adozione di vari pseudonimi. Ne collezionò una ventina, la gran parte dei quali in perfetta sintonia con il genere di letteratura che produceva: Mr. Spectator, Legionnaire 148, Joe Blitz, Winchester Remington Colt. Quanto a ciò di cui scriveva, praticò un po’ tutti i generi pulp popolari al tempo della Grande Depressione, ma è nella fantascienza che sfogò meglio la sua incontinenza di scrittore.

A questo proposito è interessante notare che, come altri autori della cosiddetta epoca d’ora della fantascienza, quella dominata da John W. Campbell, direttore della mitica Astounding Stories, Hubbard era molto influenzato dal pensiero di un filosofo polacco naturalizzato statunitense, Alfred Korzybski, ideatore della semantica generale: per lui le parole non sono le cose che descrivono, almeno non più di quanto una mappa non è il territorio che rappresenta. Questa separazione del linguaggio dalle cose nominate, unita all’impossibilità umana di fare tuttavia a meno delle parole, sarebbe – secondo Korzybski Korzybski – la vera fonte dei disturbi psichici e anche di altri problemi e malattie, incluse le carie dentali, che andrebbero perciò curate con un adeguato training semantico.

Tracce di questa audace teoria riafforano in Dianetics, conosciuto tra gli scientologi come il Libro Uno o anche la summa di «cinquantamila anni di pensatori» qualora si preferisca l’immodesta definizione del suo autore. Più concretamente, è un manuale di autoaiuto, il cui metodo dovrebbe produrre «quel tipo di stabilità e sanità mentale che gli uomini sognano da secoli». Malgrado il metodo sembrasse rivendicare una qualche scientificità, Hubbard concesse all’amico Campbell lo scoop di una anticipazione sulla sua rivista, dunque in mezzo a storie di navi spaziali, scienziati pazzi e donnine insidiate da mostri extraterrestri. Il che ha indubbiamente una sua coerenza, sebbene assurda, considerato che secondo la chiesa che ebbe origine da quel libro tutto sarebbe iniziato nella Conferedazione Galattica settantacinque milioni di anni or sono, quando un desposta di nome Xenu spedì sulla Terra i thetan.

Infine, naturalmente, Hollywood: la chiesa fu fondata a Los Angeles nel 1954, sia perché la città offriva da sempre asilo alle fedi più strampalate, sia perché il mondo del grande schermo era una vecchia ossessione di Hubbard. Più di una volta aveva provato a entrarvi come sceneggiatore, proponendo romanzi e racconti con esiti miserevoli. «Non ho abbastanza fascino» si lamentava.

Una volta dotatosi di una chiesa tutta sua poté tornarvi in altre vesti, quelle del guru spirituale, e non è certamente un caso che la fama abbia finito col rappresentare per Scientology quel che per un cristiano è la grazia.

Nella rivista ufficiale della chiesa si incitano i fedeli a fare proseliti tra le celebrità dello spettacolo. Veniva anche fornita una lista di candidati ideali: Marlene Dietrich, Walt Disney, John Ford. Come un simile fenomeno vanti ancora oggi credenti di spicco quali Tom Cruise e si tenga a galla nonostante gli scandali, le palesi assurdità, i lati oscurissimi e finanche la morte del suo messia, lo spiegano l’illuminazione di partenza, il miliardo di dollari in attività liquide, i centodieci ettari di proprietà sparsi per il mondo, l’eredità lasciata da Hubbard in diritti di autore. In una sola parola, i soldi. Con buona pace della fantascienza e delle bibbie.