Ho imparato a conoscere Leonardo Sciascia spulciando nel prezioso «Schedario» di Arnoldo Ciarrocchi, in preparazione del Catalogo generale. Prezioso non solo per ricostruire la storia delle sue incisioni, dal 1938 al 1992, quanto per le annotazioni che a occhio inesperto potrebbero apparire maniacali se non inutili.
Ciarrocchi, scheda per scheda, seguendo i suggerimenti del C. A. P. (Carlo Alberto Petrucci), direttore della Calcografia Nazionale, non annota solo il titolo, l’anno, le misure della lastra, gli stati e la tiratura in 16 o in 24 esemplari, qualche volta in 40, che solo raramente avrebbe completato, ma accanto a ogni copia scrive il nome dell’acquirente e, in più occasioni, il giorno della consegna e la somma ricevuta. E così sappiamo che, nel 1952, il 28 marzo, Sciascia riceve, per cinquemila lire, l’esemplare 31/100 della serie Aria di Roma, del 1950; nel 1953, il 19 giugno, per diecimila lire, l’esemplare 17/40 de Il cortile delle monache (per alto), del 1939, il 3/VI dell’Autoritratto dietro lo specchio, del 1952, e il 14/XX del secondo stato di Paese inciso lungo la Nazionale con un alberello o La stradina bianca, del 1950; nel 1954 una prova de I poveri che mangiano i bruscolini, del 1949; nel 1956, il 9 settembre, un s. n. di Alberi lungo il Chienti, del 1947; nel 1971, poco prima di Natale, il 3/18 di Susy, il 4/16 di Giuliana G. senza mani, l’1/6 della puntasecca Ritrattino di Maria Luisa, incise proprio quell’anno.
La consegna delle tre incisioni pone fine a un silenzio di quindici anni, anche se nel 1955 Sciascia ha avuto molta parte nella pubblicazione di Io incisore, uscito con le Edizioni Salvatore Sciascia a Caltanissetta come quaderno n. 18 della rivista «Galleria».
Il silenzio, la sorpresa dell’incontro e la spiegazione della stima di Sciascia per Ciarrocchi sono nelle pagine di una rivista e in una lettera.
Nell’agosto del 1971, sul n. 3-4 di «Civiltà delle Macchine», appare un testo di Ciarrocchi: Dall’incisione all’acquarello. Scrive: «L’incisione, come la pittura, deve essere ben condotta. Noi abbiamo rilevato nelle stampe di Morandi un sublime controllo dell’azione dell’acido. Non è uno scherzo di cattivo gusto. Il controllo dell’azione dell’acido è un dono di Dio (…). La poesia nasce da questo ineffabile rapporto di tempi di morsura (…). Dal 1955 dipingo quasi esclusivamente all’acquarello. È pittura sottilissima come l’acqua di fonte, l’acqua di rose, la rugiada, l’acquavite, il vino bianco. È pittura svelta. Permette di seguire nell’arco di una giornata l’esaltarsi e lo scolorarsi della luce. Segue altresì le variazioni d’umore, il mio, mutevolissimo. Il mio cuore è come una collina su cui l’ombra di una nube passa strisciando. Io sono un pittore di impressioni. Dipingo en plein air, sul motivo.
L’acquarello ha la sua stagione, l’estate, ed in una giornata le sue ore. Si può dipingere la mattina presto. Sono contrarie alla pittura all’acquarello le ore calde perché la carta si indurisce, l’acqua evapora troppo presto ed il colore si incenerisce. Sono altresì sconsigliabili le ore troppo prossime al tramonto perché l’atmosfera è eccessivamente carica d’umidità».
Sciascia legge queste righe e il 10 novembre 1971, da Palermo, fa partire una lettera: «Caro Ciarrocchi, leggo su “Civiltà delle macchine” (una civiltà che non esiste) le tue note (di una civiltà che ancora esiste perché ci sono persone come te). Con grande piacere.
Sono stato sfortunato le volte che sono venuto a Roma: o ti ho cercato e non ti ho trovato, o non ho trovato il tempo di cercarti. Spero ci si possa vedere la prossima volta, tra non molto. Affettuosamente, tuo Leonardo Sciascia».
La civiltà di Ciarrocchi, nei vari aspetti spirituali, sociali e materiali della vita, è la stessa di Sciascia, proprio come la Sicilia e la memoria di Sciascia sono le Marche e la memoria di Ciarrocchi. L’uno si propone di leggere le stampe come libro, viceversa per l’altro che da ideale amateur tiene la sua raccolta nel cassetto del tavolino. Ogni tanto, soprattutto in occasione della visita degli amici per il caffè del dopopranzo, apre quel cassetto e trasferisce agli ospiti la lettura di quei tratti sottili, resistenti e spesso invisibili che animano il disegno tracciato sulla lastra e trasferito sul foglio di carta senza perdere quei trasalimenti intimi, quelle organiche pulsioni emotive colte nel motivo che improvvise felicità hanno portato alla forma, al vero che Brandi diceva «interiorizzato e commosso, sottratto all’attimo fuggente e riassorbito nell’attimo vitale».
E non è l’attimo fuggente che, sempre nel 1971, a «L’Arco» di Via Mario de’ Fiori a Roma, ferma Sciascia davanti a Ballets-Minute di Nicolas De Staël con le acqueforti ricavate dai disegni fatti in Sicilia nel 1953? La prima adesione di De Staël alla realtà viene analizzata nella sua essenza nel momento in cui affronta il paesaggio siciliano: qui lo spazio si fa immenso, utilizza forme geometriche purgate di ogni inutile orpello. L’attaccamento al dato naturale e alle strutture organiche dell’immagine segna la conquista di una sintesi formale e di un tono lirico tra i più alti della pittura moderna. Sciascia lo annota leggendo, anche sotto le apparenze, i perpetui giochi di forza usati da De Staël, avvistandone la fragilità «nel senso del buono, del sublime, dell’amore».
Di tutt’altro genere è la fragilità di André Dunoyer De Segonzac che nel dicembre del 1973, sempre a Roma, lo entusiasma con i tagli operati sulla lastra per restituire i contrasti della natura. Quante discussioni, fatte di molti silenzi e di pochi ma precisi commenti sulla frase dell’incisore ritenuto morto dagli stessi francesi che forse continuavano a rinfacciargli il rappel à l’ordre in senso espressionistico-naturalistico del lontano 1920, quando insieme a Boussingault, Marchand, Mare e L. A. Moreau costituì «la banda nera»: «Lo spirito della vera tradizione è di stare alla vita contemporanea come gli antichi stavano alla vita del loro tempo, senza alcuna imitazione o compromesso col passato». Sembra di vedere i paesaggi di Maccari, altra passione di Sciascia, tra il 1921 e il 1922, emersi nella mostra per gli 80 anni del maestro toscano.
La reazione anticubista di Dunoyer De Segonzac, la sua tensione a voler ricostituire una pittura basata su un naturalismo di derivazione cézanniana che, in un modo o nell’altro, contaminava il revival realista del tempo, incuriosisce Leonardo. Un foglio accanto all’altro, cerca riscontri nelle serie de Il Morin (1923), Le spiagge (1935), Le Georgiche (1947), negli incontri sul ring, nei soldati al fronte, nei nudi e nelle nature morte, in Isadora Duncan, e invece vi trova disinvoltura e freschezza. Il segno è privo di dissonanze, di contrasti, di eccessi, sempre omogeneo, unitario, istintivo, nato da una emozione suscitata da quella sorgente zampillante di impulsi sensibili che è la realtà. Impulsi tradotti in agili arabeschi, in linee austere come il colore delle sue opere a olio ma che del colore hanno assunto la trasparenza, in tratti disposti secondo una gerarchia di ritmi che si fanno ora teneri ora gravi e tendono sempre a riunire i molteplici elementi del paesaggio, in segni scintillanti, esplosivi, sonori ma senza arbitrarietà, che incatenano i piani, secondo un gioco sapiente di chiaroscuro, portando all’integrazione del nudo nel paesaggio, a quei passaggi sapienti disposti tra eccessi di sole e ombre di sottobosco.
La «libertà di mostrare armonie racchiuse», l’ansia di imprigionare l’attimo fragile del presente, la convinzione – aristocratica e popolare – che l’arte è l’immagine della vita interiore, non può non colpire Sciascia che certo rilegge tutto questo, anni dopo, nei fogli di Edo Janich, pronto, ogni volta, a tradurre l’immaginazione nel disegno steso sulla lastra.
L’ora-luce che il giorno segna sulle cose osservate da Ciarrocchi, da De Staël, da Maccari, da Clerici e da Dunoyer De Segonzac, batte i suoi secondi anche per Edo Janich, subito coinvolto nell’avventura della Sellerio. Edo si pone al centro di queste lancette che scandiscono il tempo, fa corrispondere questi battiti a quelli del cuore, dispone dei bianchi della carta per depositarvi tesori di fantasia e di scaltrezza, al punto da far emergere ciò che è stato omesso, ciò che è stato modificato o arricchito dall’osservazione del mondo visibile.
L’impianto generale e l’intelaiatura continuano ad avere un’importanza fondamentale nell’incisione di Edo, sia che guardi Roma, Venezia o Palermo. Più il tratto domina lo spazio, più questo aumenta di risonanza e, di conseguenza, l’evocazione dei contrasti di natura, le sue alternative.
Il disegno, in Janich, è la coscienza della forma, anche se racchiusa nella piccola superficie di una lastra di rame che, raccogliendo le energie del pensiero roteante come un pianeta e le considerazioni di Leonardo Sciascia sullo stato attuale della letteratura, ne fa lo specchio della condizione dell’incisione, «costretta a starsene fuori: con orecchie intente, sguardo acuto, sospettosa, guardinga, insicura, con soprassalti e freddo nelle ossa». Un’incisione, naturalmente, come piaceva a lui e non lontana dalle qualità della sua scrittura: schiva, lineare, priva di barocchismi, carica di pudori espressivi che sono il segno di ogni linguaggio originale coltivato in solitudine.