Quando in una mattinata di fine luglio 1989, già gravemente ammalato – se ne andrà soltanto qualche mese dopo, il 20 novembre a sessantotto anni – al cinema Odeon di Milano vede Nuovo Cinema Paradiso, Leonardo Sciascia si commuove. La rievocazione di Giuseppe Tornatore di una piccola comunità meridionale gli sembra una specie di requiem del cinema come era una volta, e insieme il rimpianto di un mondo che ha perso la capacità di sognare, di comprendere la vita attraverso le ombre che si muovono sullo schermo. Si commuove perché la storia dell’operatore Alfredo e del piccolo Salvatore gli ricorda gli anni lontani del primo cinematografo di Racalmuto, ricavato nel 1929 dal teatro comunale, con due proiezioni a settimana, il sabato e la domenica. La febbre che suscita tra gli spettatori del paese dell’entroterra siciliano coinvolge anche lui sin da ragazzo, conquistato per sempre dal cinema silenzioso, dalle mitiche immagini di Francesca Bertini, Pina Menichelli, Diana Karenne, Lupe Velez.

Nel palco centrale
Spettatore privilegiato perché lo zio si occupa della gestione della sala – ne parla in uno dei suoi primi racconti – sta nel palco centrale accanto alla cabina di proiezione, dove negli intervalli fa razzia dei frammenti di pellicola che restano per terra, ma qualche volta riesce a convincere il proiezionista a tagliargli un paio di fotogrammi dei più suggestivi, di cui fa collezione. Negli anni successivi, la passione per il cinema non diminuisce: «Studiando a Caltanissetta, avevo modo di vedere più film: uno al giorno, e a volte anche due. Ogni anno riempivo un libretto di annotazioni sui film visti: avevo, prima che lo facessero i giornali, inventato una specie di votazione con asterischi: cinque il massimo voto. La cosa curiosa, scoperta qualche anno fa, è che Gesualdo Bufalino, che non conoscevo, faceva allora la stessa cosa. Non molto curiosa, a pensarci bene: perché per lui, per me, per altri della nostra generazione e della nostra vocazione, il cinema era allora tutto. Tutto». Addirittura, aggiunge, «fin oltre i vent’anni sognai di fare il regista, il soggettista, lo sceneggiatore».

Ivan Mozzuchin
Il film che lo segna profondamente è Il fu Mattia Pascal (1925) di Marcel L’Herbier con Ivan Mozzuchin, che vede dodicenne all’inizio degli anni Trenta, poco prima d’imbattersi in Le avventure di Casanova (1927) di Aleksandr Volkoff, di nuovo con Mozzuchin: due interpretazioni tra l’ironico e l’allucinato che non riuscirà più a dimenticare. Anche perché all’epoca non ha ancora letto né il romanzo di Luigi Pirandello né le memorie di Giacomo Casanova. Anzi, è proprio il turbamento nato dalla visione dei due personaggi così diversi ma resi identici dal volto dell’attore, dal suo corpo, dalle sue espressioni che lo spingono a leggere i libri. Se negli anni seguenti cerca di saper tutto su Mozzuchin – il divo più famoso dell’ultimo periodo prerivoluzionario del cinema russo, che dopo un paio d’anni a Odessa, a Berlino, a Hollywood, resta a lungo in Francia con gli émigrés dell’Albatros Film non solo come attore dalla mimica inconfondibile, ma anche come regista – è nota la sua immersione totale nel mondo pirandelliano, nella tragicommedia del vivere riletta alla luce di Jorge Louis Borges.

È proprio il boomerang tra Borges e Pirandello che l’aiuta a inoltrarsi nel piccolo mistero di Mozzukhin, Mattia Pascal e Casanova, nella ricerca d’identità sospesa tra il volto e la maschera. Quarantacinque anni dopo rivede Il fu Mattia Pascal negli archivi della Cinématèque Française a Bercy, dove dentro le grandi «pizze» metalliche sono conservati migliaia di film, procurandogli un senso di smarrimento e di vertigine, che lo rimanda alla pagina della Repubblica platonica, quasi una profezia del cinema: «Che cosa è, lo spettatore cinematografico, se non un’ombra che guarda altre ombre, che confonde la propria ombra – e cioè la propria esistenza – con quelle delle altre ombre che la luce proietta da dietro le sue spalle? E non sta come incatenato alla sua poltrona? E non è oggi, tra cinema e televisione, quello che Platone dice «il mondo conoscibile» ridotto alle ombre che passano sul grande o sul piccolo schermo, sulle pareti della caverna? E un paio di generazioni non stanno dentro questa caverna fin dall’infanzia, come i prigionieri che Platone invitava ad immaginare?».

Sfogliando Questo non è un racconto Scritti per il cinema e sul cinema, a cura di Paolo Squillacioti, uscito da Adelphi (pp. 170, € 13,00), ci si accorge subito che le figure del muto hanno un posto privilegiato nella memoria dello scrittore, quasi un’ossessione. A cominciare da Charlot, che tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta è il comico con cui si ride «fraternamente». Memorabile la battuta che rivolge ai detenuti della prigione di Sing Sing: «Coraggio, ragazzi, se noialtri siamo liberi, è soltanto perché ancora non ci hanno beccati». Subito dopo vengono le impassibili acrobazie di Buster Keaton, faccia di pietra, di cui ricorda la scritta che il comico tiene in camerino: «Perché essere soltanto difficili quando con un piccolo sforzo potete diventare incomprensibili?».

Vampirismo casalingo
Quasi una dichiarazione di poetica di un attore-autore di singolare consapevolezza mediologica. Curioso il ricordo di Clara Bow, la it girl di fine anni Venti, la cui carica erotica gli sembra una sorta di vampirismo casalingo con qualche ingenuo apporto parigino. Se l’immagine dell’attrice è argutamente confrontata con le settemila fotografie di A Pictorial History of the Silent Screen di Daniel Blum del ’53, l’erotismo trova la sua luminosa verifica in L’érotisme au cinéma e Tecnique de l’érotisme, i due libri di Lo Duca pubblicati da Pauvert tra il ’57 e il ’58, confermando il gusto bibliografico dello scrittore che non dimentica mai di dare un’occhiata ai bollettini delle librerie antiquarie. Senza trascurare Cinema Illustrazione, il settimanale degli anni Trenta, di cui consulta la rubrica di corrispondenza coi lettori «Lo dica a me e mi dica tutto» tenuta da Giuseppe Marotta, che gli offre un godibilissimo campionario del divismo d’antan.

Il ricordo dell’immenso Stroheim è tenuto vivo da Mino Maccari che continua a disegnarlo con il monocolo, la testa rasata, il rigido colletto della divisa, l’abnorme collottola, ma anche dalla scena di La grande illusione (1937) di Jean Renoir, in cui l’ufficiale tedesco riceve nel suo alloggio il capitano francese suo prigioniero, un notevole Pierre Fresnay, per celebrare insieme la fine del mondo di ieri con le sue regole e i suoi riti, che nessuno gli sembra aver mai rappresentato meglio di Erich von Stroheim, disertore dell’imperialregio esercito austriaco. Quando nel ’61 muore Gary Cooper se ne va l’ultimo simbolo dell’altra America, l’America della frontiera, di Roosevelt, Soldati, Vittorini, Pavese, Pintor: un’immagine che si concretizza nell’estate 1943 nel sergente della divisione Texas che entra con la sua pattuglia in un paese della Sicilia e si confonde sin dalla camminata con l’attore che ha sempre incarnato l’uomo che avanza a ristabilire la legge, la dignità, la libertà degli uomini. Nell’81 muore René Clair, uno dei registi più amati, il solo per il quale, trovandosi a Parigi, decide di andare al funerale. Ma quando arriva alla chiesa di Saint-Germain-l’Auxerrois si accorge che era stato celebrato un’ora prima in forma privata. Il furgone della televisione, raccolte le attrezzature, sta per andarsene con la speranza di raggiungerlo al cimitero. Proprio come succede in Entr’acte (1924), surreale sinfonia delle immagini in libertà che finisce con l’inseguimento del carro funebre.

Nell’ampia ricognizione sul cinema italiano, riflesso nello specchio ambiguo della sicilitudine, sorprende la perplessità su La terra trema (1948) di Luchino Visconti, bacchettato per l’uso del dialetto e il ritardatario romanticismo. Senza mezzi termini sono liquidati Il bell’Antonio (1960) di Mauro Bolognini e Mafioso (1962) di Alberto Lattuada. Nonostante le sottili argomentazioni, pollice verso anche per la Sicilia «calligrafica» di L’avventura (1960), che corre dall’isola di Panarea a Noto e a Taormina come su un tapis-roulant, con quella complicazione del gratuito a cui accanitamente Michelangelo Antonioni si dedicherebbe. Se Divorzio all’italiana (1961) di Pietro Germi è considerato il suo film più felice, segnato dall’eros comico brancatiano, Sedotta e abbandonata (1964) sarebbe invece un dramma naturalistico rotto a tratti da elementi parodici: «La mano di Germi si è appesantita: non riesce a far ridere e non riesce nemmeno a commuovere». Il solo che ne esce bene è Salvatore Giuliano (1962) di Francesco Rosi: «Bellissimo, intenso film; mai la Sicilia era stata rappresentata nel cinema con così preciso realismo, con così minuziosa attenzione. E ciò discendeva da un giusto giudizio – morale, ideologico, storico – sul caso Giuliano». Se l’invisibilità del bandito, ridotto a un impermeabile che spunta tra i sassi di Montelepre, gli sembra un’idea geniale attraverso cui Rosi sottolinea energicamente che non contava Giuliano, ma le forze, gli interessi, le persone che lo muovevano, per i contadini coi quali lo scrittore vede il film l’invisibilità diventa invece un dato mistico: «Giuliano come idea della rivolta contro lo Stato, della vendetta sociale, della redenzione del povero».

Pasolini
Come dimenticare poi la straordinaria sintonia con Pier Paolo Pasolini, che considera una specie di «sismografo», con cui bisogna fare i conti? Se i loro rapporti vengono da lontano, è dopo la sua tragica morte che Sciascia scrive in una lucida pagina di Nero su nero: «Io ero – e lo dico senza vantarmene, dolorosamente – la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose». Pochi giorni dopo l’assassinio di Pier Paolo nel ’75 vede con angoscia Salò o le 120 giornate di Sodoma, l’ultimo film: «Ho sofferto maledettamente, durante la proiezione. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a non chiudere gli occhi, davanti a certe scene: e nel buio diciamo fisico che si faceva in me, precario conforto a quell’altro, morale e intellettuale, che dilagava dallo schermo, disperatamente e come annaspando cercavo nella memoria immagini d’amore. Il film di Pasolini è senza dubbio importante: importante come conclusione della sua autobiografia, importante per chi come me sente il bisogno di ricostruire la sua vita, di spiegarsela, di capirla con umiltà e insieme con pietà».

Senza mai diventare regista, il sogno del cinema si è riversato nella sua narrativa che, l’ha detto più volte, risente dell’esperienza cinematografica di spettatore. Se si escludono i tanti documentari per i quali scrive il testo, da Con il cuore fermo, Sicilia (1967) di Gianfranco Mingozzi a Alle origini della mafia (1976) di Enzo Muzii, la sceneggiatura più importante a cui collabora è quella di Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (1972), il bel film di Florestano Vancini sulla rivolta popolare nel catanese, stroncata nel sangue da Nino Bixio: un caso clamoroso di Risorgimento «tradito». È poco nota la sua partecipazione a Viva l’Italia! (1961) di Roberto Rossellini, tre grandi scene – più di sessanta fogli dattiloscritti trovati tra le sue carte – che dovevano dare un’immagine della Sicilia all’arrivo di Garibaldi, escluse dal montaggio. Il film di Carlo Lizzani su Serafina Battaglia, che nelle aule giudiziarie sfida la mafia per mandare all’ergastolo gli assassini di suo figlio, nasce da un memoriale della protagonista che a Sciascia nel ’68 viene chiesto di riordinare più che di sceneggiare. Ma il progetto non va in porto. Anche al centro delle pagine scritte probabilmente per Lina Wertmüller c’è una donna protagonista di una possibile incrinatura nel muro dell’omertà mafiosa, ma l’abbozzo è troppo breve per dirne di più.

Quanto a C’era una volta in America (1984) di Sergio Leone, di cui sembra avrebbe dovuto scrivere i dialoghi, dopo un incontro (tempestoso?) con il regista romano non se ne fa nulla. Dal 1960 smette quasi del tutto di andare al cinema. Ci va una volta all’anno per vedere i nuovi titoli di Federico Fellini. Neppure i film tratti dai suoi libri sembrano interessarlo più di tanto. Spesso non li ha visti, o dice di non averli visti, per ribadire con energia che una cosa è un film e un’altra cosa è un libro. La fedeltà letterale non gli interessa, gli importa piuttosto la fedeltà sostanziale, la fedeltà all’idea da cui i libri muovono. Se i film suscitano polemiche anche molto accese, non rinnega nemmeno una virgola di quello che aveva scritto. Non collabora alle sceneggiature e non frequenta i set, ma il rapporto soprattutto con Francesco Rosi ma anche con Elio Petri è quasi sempre di grande vicinanza. Nessun contatto invece con Damiano Damiani che con Il giorno della civetta (1968) dà la scalata alle classifiche degli incassi, puntando sul personaggio femminile che nel libro appare soltanto in un paio di pagine – mai chercher la femme quando si parla di mafia, suggerisce lo scrittore – e tagliando tutti i colloqui tra le anonime eccellenze romane che fanno da contrappunto ai drammatici avvenimenti dell’isola.

Quando vede Todo modo confessa che con il libro aveva scherzato, dicendo cose tremendamente serie. Anche Petri scherza e non scherza. Nemmeno Rosi aveva soltanto scherzato ricavando dal Contesto il suo Cadaveri eccellenti. «Ho scherzato su tutto: questo posso dirlo con tranquilla coscienza», scrive nel ’76. «Ho scherzato sul Partito Comunista, sulla Chiesa Cattolica, sulla mafia, sugli scienziati, sul Risorgimento, sulla famiglia. Su tutte le cose su cui la maggioranza degli italiani di scherzare non se la sente. E si intende che alla parola scherzare confido un significato di categoria morale ed estetica, un senso liberatorio. Bisogna scherzare sulle cose che si temono o si odiano o si amano. Per liberarsi dalla paura o per giustamente amarle. Così scherzava Voltaire».