Un elemento ossessivo nelle inchieste del commissario Maigret è questo: «Caricò macchinalmente la pipa». In realtà, in molte occasioni Jules carica anche lentamente la pipa. È la parola «macchinalmente» (in francese machinalement), però, a costituire un vero e proprio stilema della scrittura simenoniana, come sottolinea Marco Morello, tanto da riguardare la quasi totalità dei suoi personaggi: un tic dello scrittore belga vòlto alla semplificazione del dizionario per arrivare al maggior numero di lettori possibile. Strategia, quella del «monolinguismo», davvero molto petrarchesca. Per il resto Maigret ha la fortuna di avere dalla sua una donna eccezionale – la signora Maigret, un visiting angel del quotidiano –, di bighellonare in una Parigi dall’aria spesso frizzante (il «soffio di poesia» dei gialli, secondo Sciascia) e di essere votato al suo chiodo fisso, con la fronte sul vetro gelido della finestra.
Dalle poche nozioni sulla vita del commissario è agile l’imbeccata verso una domanda ormai necessaria, per certi versi simile alla dualità poesia/canzone. La narrativa di genere (o di consumo) ha la medesima dignità del romanzo propriamente detto? Inoltre: esiste una grammatica minima del giallo? In ventitré articoli apparsi dagli anni cinquanta in giù e radunati adesso da Adelphi sotto il titolo Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo («Piccola Biblioteca», a cura di Paolo Squillacioti, pp. 191, € 13,00), Leonardo Sciascia scrive un abbozzo di teoria del poliziesco, riabilitandolo – in straordinario anticipo sui tempi – ed evidenziando come Simenon non abbia nulla da invidiare all’allegra brigata dell’école du regard. Anzi, tutto il contrario. C’è qualcosa in lui destinato a rimanere: nel gettare libri dalla finestra ed erigere barricate à la Zola – ma è noto che Simenon lavorasse, senza rileggere per altro, chiuso nella stiva di battelli fluviali –, egli ha creato con furberia volpina quel faux après che rende inconfondibile i suoi rapidi passaggi descrittivi, le scorrerie nell’ambivalente psicologia di alcuni tipi d’uomo, il tono da al di sopra della mischia.
Eppure l’acutezza, almeno in fatto di sottosuolo – «l’investigatore è un genio, un uomo che possiede eccezionali qualità razionali e visionarie» –, è caratteristica essenziale del dottor Ciccio Ingravallo (chi non ricorda il suo astuto «chiste è ll’amico» a casa di Liliana Balducci?), di Hercule Poirot, dell’eleganza edificante di Padre Brown, dell’esteta Sherlock Holmes e naturalmente del loro capostipite, Auguste Dupin. Ed ecco la folgorazione di Sciascia: l’investigatore è un eletto, colui che è investito dalla Grazia illuminante, tipica di Santa Lucia «nimica di ciascun crudele». Non a caso, rileva ancora l’autore siciliano, la più antica detective story figura nel libro di Daniele con la vicenda di Susanna, dei giudici corrotti, del lentisco e del leccio. Ma l’aura divina spira anche in un’esaltazione nominalistica vibrata da funzione ironica o simbolica: «L’aiutante di Wolfe (wolf: lupo) che si chiama Arcibaldo, Mason che vuol dire muratore, Ellery Queen edera regina (il tenace arrampicarsi dell’edera)». C’è dunque un nesso inestricabile tra i protagonisti, nell’identikit del loro repertorio – come accade alle maschere di Commedia dell’Arte. «La centrifugazione della realtà è la specifica tecnica del romanzo poliziesco». Ciò significa che l’esistenza è «turbinata» dalla descrizione, soggetta cioè a un appiattimento di sfumature.
Nondimeno Maigret è un diverso, un anomalo. Non pensa ma vede, e soprattutto, cechovianamente, ama. Le atmosfere torbide delle sue giornate confliggono con sentimenti non di rado sbiaditi, onirici («istantanee intuizioni», figlie di un’incapacità algebrica e di un vivissimo senso lirico); da lì viene fuori l’ipotesi di verità. Una questione di metodo, appunto. Una concezione dello scrivere vicina a quanto «di inquieto, di ribollente, di disordinato» ci sia «nelle coscienze». Maigret sembra dormire a lungo, forse troppo, sembra essere posseduto da strane visioni, rivivere continuamente, nevroticamente immagini e suoni, brandelli di discorsi, lampi di visi. Poi si sveglia all’improvviso. Qui Sciascia, prendendo spunto da una riflessione di Vittorini, si abbandona all’interrogativo girardiano: la letteratura gratuita del crimine è legata al moderno sentimento del sacro? Si potrebbero citare i presupposti eidetici con cui nasce la tragedia greca. Certo è che Simenon questa tragedia la suona in modo elegiaco, non abbandonando mai l’Es gogoliano che allunga i tentacoli e i periscopi dell’intuito nei legami fra le persone.
Se in Chesterton prevale il «soprannaturale lieto» con faticosi sillogismi nella lotta tra il bene e il male, lo scrittore di Liegi mette in chiaro le incrinature, gli accenti, i barbagli della trascendenza. La linea epistemologica che separa, all’incirca, il teologo o il filosofo dal mistico o dal poeta. Il metodo di Maigret non è deduttivo, ma induttivo; non è filosofico-scientifico, ma poetico; non coincide con l’art pour l’art di Conan Doyle, ma è una carta assorbente del reale, un tremolio di mistero. Non lontani da quest’orizzonte paiono Ciccio Ingravallo, protagonista di quello che Sciascia considera «il miglior giallo della letteratura italiana», e il capitano Bellodi. Come ricorda Squillacioti, non lontano è il modo in cui sono costruiti La scomparsa di Majorana e L’affaire Moro. Il modo in cui «Machiavelli si ingaglioffava a giuocare a cricca». Ossia, macchinalmente.