Una scena del Dracula di Francis Ford Coppola mostra il conte vampiro intrattenersi nel tendone in stile circense di un cinema degli esordi, in compagnia della sua «preda» Mina Murray. Mentre vengono proiettate alcune pellicole, i due dibattono sulla natura di quelle immagini: risultato della scienza oppure prodigio? Coppola, con una strizzata d’occhio allo spettatore, induce a sospendere il giudizio e ad accogliere la natura ambigua del cinema, come nella fiaba gotica si accetta la duplicità di Dracula: uomo/animale, mortale/immortale, romantico/crudele. Ma c’è un elemento in più, condensato abilmente nella scena: ritratto davanti agli schermi rudimentali del tendone delle meraviglie, il vampiro che ha «attraversato oceani di tempo» è l’emblema della migrazione dei miti dalle grandi narrazioni verso la terra promessa del cinema, territorio che meglio di altri ne ha garantito la prosperità (insieme alla psicoanalisi, e di nuovo una manciata di anni a fine Ottocento tiene insieme scienza e prodigi; basti ricordare due date: 1895, primo spettacolo dei Lumière; 1899, L’interpretazione dei sogni di Freud).
Esercizi di cinefilia e dense riflessioni sulla vita dei miti sono, al pari di questa scena, due recenti uscite della «Piccola Biblioteca» Adelphi, «Questo non è un racconto» di Leonardo Sciascia (a cura di Paolo Squillacioti, pp. 170, € 13,00) e Allucinazioni americane di Roberto Calasso (pp. 133, € 14,00). Entrambi i volumetti raccolgono testi di origine e ispirazione diversa: in quello sciasciano si va da due soggetti inediti e un «dialogo narrativo» stesi per Carlo Lizzani, Lina Wertmüller e Sergio Leone a pezzi che condensano ricordi, profili e considerazioni sugli adattamenti cinematografici dei romanzi dell’autore stesso; nel libro di Calasso, un nucleo incentrato sui capolavori di Hitchcock La donna che visse due volte e La finestra sul cortile (tra cui gli inediti Figmentum e Il ballo dei fosfeni) si abbina a scritti che trattano di Max Ophüls, della Gilda di Rita Hayworth e del Disperso di Kafka.
Comune ai due autori è la passione, quasi la mania, per i film (in particolare americani): per la generazione di Sciascia, cresciuta sotto il fascismo, in quelle pellicole «si intravedevano i libri che non si potevano leggere, le idee che non potevano circolare, i sentimenti che non si dovevano avere»; per quella di Calasso i cinema delle proiezioni pomeridiane a metà degli anni cinquanta erano il teatro di «un piacere confinante con il vizio». L’aura del negativo, sotto forma di vizio o proibizione, è un propellente eccezionale per alimentare la passione, ma nella cinefilia dei nati nella prima metà del Novecento c’è anche dell’altro. Qualcosa che può forse essere rintracciato in un passaggio dell’autobiografia di Sartre Le parole, in cui il filosofo racconta la nascita del suo amore per il cinema: «Io avevo sette anni e sapevo leggere, il cinema dodici e non sapeva parlare. Si diceva che era agli inizi, che era destinato a fare progressi; pensavo che saremmo cresciuti insieme». Seguendo Sartre, si potrebbe dire che la giovinezza della settima arte ha dato a diverse generazioni novecentesche la sensazione di «stare crescendo» con il cinema, di evolvere e maturare insieme, con tutto il bagaglio di confidenza e delusioni che comportano le amicizie sbocciate in tenera età. Questo sentirsi coetanei, e pressoché consanguinei, è sfociato nella visione del cinema come luogo privilegiato dove leggere, quasi in vitro, lo specifico del mondo contemporaneo, e in particolare come scenario in cui il mito si condensa per poi venire restituito al quotidiano in una circolarità mai districabile. E in questa operazione, che sembra legata alla contingenza storica della cinematografia come forma d’espressione tipica del Novecento, si fa strada invece la sua connessione con il fiume eterno dell’immaginario e con quella che Calasso, nel pezzo intitolato al Guanto di Gilda, chiama la «grande migrazione degli dèi» verso il cinema.
Analisi ed esempi sembrano richiamarsi e rispondersi tra i due libri: per Calasso tale esodo è dovuto al fatto che il cinema consente di avvicinarsi al «sogno più antico e più efferato del mondo in cui viviamo», la trasformazione del fantasma in cosa. E questo sogno è il risultato di un’epoca segnata dal feticismo totale, in cui «il magazzino è diventato il cosmo stesso». Il cinema ci restituisce fantasmi dotati allo stesso tempo di «quasi-inesistenza e super-esistenza»: non ha forse questo ambiguo statuto ontologico «il cowboy chiamato / alla polvere e al sangue d’Europa», l’ombra di Gary Cooper che Sciascia vede agitarsi dietro l’aspetto e le movenze dei soldati americani nella Sicilia liberata? E non lo possiede anche la figura di Marilyn Monroe, vera erede di quel cowboy in quanto capace di spostare la frontiera del mito americano dallo spazio collettivo e maschile all’universo interiore e femminile? I personaggi-attori si rivelano, in quest’ottica, molto più simili di quanto si sia disposti ad ammettere alle figure della mitologia classica: sono «immagini mentali che tendono a invadere le strade e a trasformarsi in percezioni brute», scrive Calasso. Caso esemplare di questo sdoppiamento, di questa vertigine (non diversa da quella del protagonista della Donna che visse due volte, che insegue una donna fantasmatica in una reale) è il secondo testo raccolto nella sezione dedicata a Ophüls di Allucinazioni americane, in cui l’autore ricorda l’avvistamento giovanile, in un cinema di Roma, di Martine Carol, attrice di Lola Montès: un’esperienza onirica capace di svelare il guscio divistico quasi per contrasto mostrandone l’incrinatura, l’istante in cui la star non è ancora o non è più un feticcio sotto i flash.
Se il Novecento ha visto dunque miti e divinità trasmigrare verso il cinema da altre forme d’espressione, cosa abita ancora, per esempio, la dimora della letteratura? Quale rapporto si è stabilito tra le due arti? È d’obbligo perlomeno evocare queste domande, dal momento che le riflessioni tracciate sopra originano dai testi di uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano e da un autore-editore votato a un’idea di «letteratura assoluta» (come recita il titolo di una monografia che è stata recentemente dedicata a Calasso dalla studiosa Elena Sbrojavacca). Per Sciascia c’è una risposta esistenziale e, verrebbe da aggiungere, professionale, tinta dal disincanto di un amore raffreddatosi col tempo: lo testimoniano i soggetti raccolti nel libro, tentativi di trasformare in lavoro concreto l’amore per il cinema, ma naufragati in esperienze frustranti, nella constatazione che la scrittura non è mai il passaggio decisivo nella realizzazione di un buon film e che comunque «non c’è film, per quanto buono, che valga un libro anche mediocre». Sciascia finì così col disertare progressivamente le sale cinematografiche (con eccezione per i film di Fellini) scegliendo la vocazione della letteratura e, come è noto, del lavoro editoriale.
Dalle pagine di Calasso, invece, si può trarre una riflessione speculare: per l’occhio esercitato a inseguire il tracciato della mitologia dell’Occidente, «un romanzo medio è quasi un affronto, mentre in un film medio si potrà (quasi) sempre scoprire qualcosa». Le convenzioni e i generi sono un altro modo di presentarsi di quegli dèi che hanno scelto di migrare dalla letteratura e dal teatro nel cinema e che, «camuffati e ringiovaniti», ne hanno tutelato la forza vitale nel corso del ventesimo secolo. Resta da chiedersi se ancora oggi il loro travestimento regga all’estenuazione e all’ibridazione continua, e se la possibilità ormai irrealizzabile di crescere col cinema (e forse anche del crescere del cinema) non stia già spingendo gli dèi a un nuovo esodo verso altri cieli.