In quel delizioso ricettacolo di malignità che è il Journal di Léautaud, dove si esibisce il contrasto tra le eleganti movenze di innumerevoli gatti e la fissità silicea della salma di qualche conoscente (essendo il compilatore in questione affetto da quella particolare forma di necrofilia rappresentata dalla minuziosa descrizione delle esequie cui assiste), compare il ritratto al fulmicotone di Marcel Schwob: «Piccolo, curvo, pallido o giallo secondo i giorni. Gli occhi tanto più brillanti, con molto bianco. Una certa rassomiglianza con Napoleone. Lo dicono dedito alla morfina, all’etere. Dicono anche che avrebbe rapporti con il suo servitore cinese». E, in un altro celeberrimo Journal – quello di Renard – ,viene così descritto, con ammirazione non disgiunta da ben altro tipo di empatia: «Ieri Schwob mi ha fatto compagnia fino alle due del mattino. Mi è sembrato che con le sue dita sottili prendesse il mio cervello, lo voltasse e rivoltasse e lo esponesse alla piena luce del giorno. (…) Sento che questo giovanotto avrà su di me un’influenza enorme». Se ne parla anche nei diari di Gide, che inveisce a proposito del retaggio semitico di questo enciclopedista d’antan e filologo raffinato, vissuto tra il 1867 e il 1905, studioso di argot, della leggenda di Amleto e di Villon nella banda dei Coquillards, traduttore di Catullo e Luciano, Defoe e Shakespeare, nonché frequentatore dei famosi mardis mallarmeani, in compagnia dell’algido Valéry, dell’erotomane Pierre Louÿs, dell’ectoplasmatico Régnier.
Maestro del racconto breve, non a caso apprezzato da Borges che però non lo incluse nella «Biblioteca di Babele» ideata per Franco Maria Ricci (in compenso La crociata dei bambini era apparso in precedenza, 1972, nella «Biblioteca blu», versione di Giovanni Mariotti), Schwob è universalmente conosciuto per le Vies imaginaires (1896), collezione di biografie sui generis, definita da Colette «di una perfezione irritante», che influenzò alcuni esponenti di spicco dell’avanguardia quali Jarry, Apollinaire e Artaud. L’Ubu Roi è dedicato proprio a Schwob, mentre sulla figura di Paolo Uccello – presente in uno dei cammei più significativi delle Vite immaginarie – l’autore nevrastenico del teatro della crudeltà ricamò una serie di rêveries giovanili: pagine visionarie che confluiranno in L’Ombilic des limbes e L’Art et la mort, composte a ridosso del suo apprendistato «eretico», a metà degli anni venti, agli ordini di Breton e dei surrealisti, invisi in maniera irriducibile alla forma romanzesca in virtù di un frammentismo intriso di primigenie pulsioni freudiane, in parte scarnificate dall’assenso all’ortodossia comunista. Qui il nome del pittore della predella del Miracolo dell’ostia profanata – tema che non poteva non affascinare quel manipolo di anticlericali capitanati da Péret (immortalato nella «Révolution surrealiste» mentre insulta un prete a un angolo di strada) –, viene ripreso nella variante «Paul les Oiseaux» accolta nelle Vite immaginarie, salvo essere trasfigurato in seguito, sulla falsariga del «Paolo Ucello» (sic) del medesimo modello, in «Uccello le poil», con riferimento alla simbiosi (o metamorfosi?) fra pittore e pennello. Ed è singolare che Schwob abbia racchiuso la composizione di tutti i suoi racconti nell’arco di una decina d’anni, in una fin de siècle rutilante di un coacervo di tendenze crudelmente contrapposte che si manifesta ad libitum, anticipando lo psicodramma delle avanguardie novecentesche: sberleffo dadaista, simultaneismo futurista, libido surrealista. Indimenticabile è La lampada di Psiche, uscita originariamente nel 1903 presso il Mercure de France (ancora Jarry, Léautaud, Gourmont, Rachilde…), sfolgorante polittico che racchiude Il libro di Monelle (1894), I mimi (1894), La crociata dei bambini (1896) e La stella di legno (1897), reso in italiano da Fazi nel 1995.
È perciò da salutare con estremo interesse la pubblicazione di Cuore doppio (Biblioteca del Vascello/Robin Edizioni, pp. 200, € 16,00), con valida traduzione di Angelo Mainardi, che propone e integra con una serie di nuove versioni l’eponima pubblicazione di Kami del 2005. Purtroppo si sente la mancanza dell’apparato critico, soprattutto di un’introduzione che inquadri storicamente sia la figura dell’autore sia la pubblicazione di Cœur double, avvenuta originariamente nel 1891 presso Paul Ollendorff, in un contesto culturale quanto mai variegato: Verlaine, Huysmans, Mirbeau, Anatole France, Oscar Wilde esule a Parigi sono alcuni dei sodali di Schwob. Si tratta del libro d’esordio, una raccolta di racconti suddivisa in due parti, rispettivamente intitolate Cuore doppio e La leggenda dei mendicanti, quest’ultima pervasa dall’esperienza dell’aporia e del grottesco attraverso i secoli. I temi della duplicità, dell’ambivalenza, di una realtà contraddittoria e parallela, associati a quelli del sogno, della maschera e dello specchio, si configurano come motivi ricorrenti della raccolta: si vedano racconti emblematici come «L’uomo doppio» («Quest’uomo era doppio e aveva due coscienze: ma dei due esseri riuniti in uno, qual era il vero?»), «I senza-faccia», intriso di crudo realismo prefigurante esiti espressionistici, o «Il treno 081», in cui spicca la matrice fantastica ereditata dai simbolisti, alla stregua del William Wilson di Poe «riletto» dall’alter ego Baudelaire.
Senza scomodare il Doppelgänger di Otto Rank, non si può non pensare allo Strange case of Dr Jekyll and Mr Hyde, edito qualche anno prima, nel 1886, e al fatto che Stevenson rappresentasse per Schwob un modello irrinunciabile: effettuerà con l’avvento del nuovo secolo un avventuroso pellegrinaggio sui luoghi esotici in cui visse lo scrittore scozzese, sfociato nella stesura del Voyage à Samoa, uscito postumo. Stevenson, con il quale Schwob ebbe una fitta corrispondenza tra il 1888 e il 1894, è inoltre dedicatario di Cœur double, anche se qui non è riportata la dedica e manca imperdonabilmente la prefazione di pugno dell’autore, intitolata La Terreur et la pitié, in cui venivano giustificate le scelte di poetica, a cominciare dall’asserzione programmatica che «il cuore dell’uomo è doppio» (Il terrore e la pietà si intitola una bella antologia einaudiana di scritti vari e rari, curata nel 1992 da Nicola Muschitiello).
La prosa di Schwob, popolata di emarginati, mendicanti, banditi, prostitute, tocca i tasti contrapposti di questi due elementi, terrore e pietà, consumandosi nel riverbero sinistro di un autodafé senza tempo, laddove la figura dell’eretico è destinata a soccombere tra atroci spasmi non per salvaguardare una qualsivoglia parvenza di verità bensì la sistematica ambiguitas del dubbio. Praz osserva: «Come la Légende des gueux in Cœur double è una specie di “légende des siècles” fissatasi su episodi di delinquenza di ogni secolo, così le Vies imaginaires rievocano attraverso la storia vite di anormali, di prostitute, di pirati». Si coniugano eleganza e sprezzatura, lambendo a più riprese l’artificio. Ma tale dicotomia viene riscattata da un’adesione alla pietas che si manifesta, come in Monelle e le sue sorelle, provenienti dall’archetipo preraffaellita, nella figura della prostituta, caratterizzata da tratti effimeri e angelicati. Il sacrificio compiuto dal protagonista di «Il Dom» è quanto mai esemplare: la spogliazione progressiva di sé porterà il Rajah a diventare servo dell’ultimo dei suoi servi finché «il vento lo coprì di terra, l’erba crebbe sul suo corpo; gli occhi colarono fuori dalle orbite, e piante selvagge germinarono nel suo cranio». Non sembra una descrizione allucinata dei Chants de Maldoror?