“Sergej Šchukin” di C. Cornelius Krohn, Norvegia 1916, San Pietroburgo, Ermitage

 

Nell’ottobre del 2016 inaugurava alla Fondation Louis Vuitton di Parigi la mostra Icones de l’art moderne. La Collection Chtchoukine, che celebrava Sergej Šchukin (1854–1936), patrono dell’arte del XX secolo. Oggi un libro, dal titolo Sergej Šchukin Un collezionista visionario nella Russia degli zar (Johan & Levi, pp. 335, euro 32,00), rievoca la storia di questa figura rimasta per oltre ottant’anni nell’ombra. Il volume è il frutto di un lungo lavoro condotto dalla storica dell’arte Natalia Semënova e da André Delocque, nipote di Sergej Šchukin e figlio di Irina Šchukina, e inizia con un interrogativo: «come può un mercante moscovita di tessuti estraneo alle vicende della vita artistica europea ritrovarsi a esserne improvvisamente l’epicentro?».
Il libro ha uno scorrevole taglio narrativo e, benché faccia perno sulla figura di Sergej, in realtà rievoca l’epopea di una grande famiglia, tentando di ricostruirne le vicissitudini, non di rado tragiche. Sergej nasce e cresce all’interno di una nidiata di fratelli abituati a cibarsi di arte fin dall’infanzia e iniziati alla vita da un ricco e potente mercante. Dopo aver soggiornato per studio in Germania negli anni settanta del XIX secolo, Sergej prende in mano l’attività di famiglia, un impero tessile dal notevole giro d’affari.
Dalla fine dei novanta, sull’esempio dei fratelli, comincia ad acquistare opere d’arte. Sergej diventa assiduo frequentatore delle gallerie parigine di Durand-Ruel, Vollard, Druet e dei fratelli Bernheim. Dapprima si concentra sugli impressionisti (Monet, Renoir e Degas); poi, a partire dal 1900, è la volta di Cézanne, Gauguin e Van Gogh. Šchukin sceglie gli artisti senza criteri precisi: «non sono io a scegliere il quadro, è lui che sceglie me». In anticipo sui francesi, ma anche sugli americani, Sergej porta a Mosca le ultime tendenze, intuendo le evoluzioni dell’arte del suo tempo. E anche quando non è il primo a scoprire un nuovo artista, riesce sempre a imporsi sugli altri collezionisti per la qualità e la quantità delle opere comperate. «Gioiva del fatto che i dipinti che acquistava non fossero considerati pezzi da museo e si trovassero ancora a buon mercato. A muoverlo non era l’avarizia, ma il suo spirito competitivo. Ridendo dei ricconi che badavano solo al costo di un’opera senza guardarla davvero, si fregava le mani dicendo: “La buona pittura è a buon mercato”».
Tuttavia, i suoi gusti risultano alquanto eccentrici per le consuetudini russe. Ricorda un amico pittore: «Ieri, venerdì, eravamo a casa Šchukin quando sono arrivati due dipinti di Gauguin. Gli ospiti presenti, medici e uomini di legge, in una parola l’intellighenzia russa che ama giocare a carte, si sono messi a ridere di quei quadri». Sergej viene accusato di essere un folle, di sperperare denaro, di farsi raggirare dai lestofanti francesi e di corrompere la gioventù del suo Paese.
Nel 1906 incontra Matisse: è una folgorazione, oltre che l’inizio di un fecondo rapporto. Nel 1907, dopo la morte prematura della moglie, Sergej intraprende un avventuroso viaggio – di cui restano alcuni appunti nel cosiddetto «diario del Sinai» –, quindi decide di trasformare la sua lussuosa residenza, il palazzo Trubeckoj al numero 8 di vicolo Znamenskij, in una pinacoteca. Promessa nel testamento alla Galleria Tret’jakov, la raccolta allestita a palazzo Trubeckoj assume le fattezze di un museo. «Nel gran salone, in mezzo a tutti quei mobili del Settecento, ci sono trenta Matisse! E l’effetto è prodigioso. Quell’uomo ha fiuto», scrive Vasilij Kandinskij all’amica Gabriele Münter dopo la sua visita a palazzo Trubeckoj. Dall’inizio degli anni dieci, Šchukin inizia ad acquistare lavori di Picasso, che il collezionista impara ad apprezzare grazie alla mediazione di Leo e Gertrude Stein. Picasso finirà per dominare numericamente la sua collezione con ben cinquanta opere.
Nel dicembre del 1913 viene stilato il primo catalogo della collezione, che annovera duecentotrentadue opere. La «galleria» apre al pubblico ogni domenica e a volte anche nei giorni infrasettimanali. I visitatori possono orientarsi nelle sale grazie alle targhette di rame numerate apposte sulla cornice delle opere e a guidarli nella scoperta della collezione è quasi sempre il padrone di casa, o un altro membro della famiglia.
Nel 1917, dopo l’ascesa al potere di Lenin, il cittadino Šchukin offre le sue opere al Museo di Belle Arti. In seguito, la sezione per l’educazione e la cultura del Soviet dei deputati operai riceve la proposta da parte del collezionista di creare una galleria di pittura in uno dei palazzi del Cremlino, galleria destinata a riunire cinque collezioni private di Mosca. Ma Lenin, temendo un’avanzata tedesca su Pietrogrado, decide di insediarsi al Cremlino trasferendo a Mosca la capitale del governo rivoluzionario. In un primo momento, le opere sembrano comunque al riparo da rischi. La Commissione per gli affari dei musei e la protezione del patrimonio storico e artistico stabilisce infatti che le collezioni private debbano restare dove sono ed essere aperte al pubblico. Agli ex proprietari viene concessa la possibilità di non separarsi dai loro tesori grazie a una «licenza di salvaguardia». Le autorità rivoluzionarie non dimenticano l’importanza della cultura e si sforzano di promuovere l’accesso del popolo all’arte.
Il 29 ottobre, la collezione Šchukin viene nazionalizzata in seguito al decreto del Consiglio dei commissari del popolo firmato da Lenin. Sergej lo scopre incidentalmente mentre è a Weimar, dove attende la fine imminente del conflitto per potersi poi stabilire in Francia. Dall’agosto del 1918, la I.V. Šchukin e figli, la galleria di dipinti e il magnifico palazzo passano ufficialmente nelle mani dello Stato. Nel settembre del 1918 Sergej si ricongiunge alla famiglia e nel 1919 Julius Meier-Graefe, il celebre critico d’arte tedesco, aiuta gli Šchukin a raggiungere la Svizzera e da lì la Francia.
Nel giugno del 1919, la commissione incaricata di costituire il Museo d’arte occidentale trasforma la galleria Šchukin nel Primo museo di pittura occidentale moderna (MNZZ1, secondo l’acronimo russo). Alla fine degli anni venti, la questione dei finanziamenti determina la fine delle piccole istituzioni, inglobate da realtà più grandi. Nel 1928, malgrado le proteste della comunità degli artisti e intellettuali, la collezione Šchukin viene rimossa da palazzo Trubeckoj per fare spazio alle collezioni del Museo della porcellana. Quindi, nel 1928, costretto a far fronte a un debito estero, il Consiglio dei commissari del popolo ordina di promuovere in segreto l’esportazione e la vendita delle opere e del patrimonio dei musei nazionali. In realtà, le antiche collezioni private hanno iniziato a essere smembrate ed esportate ben prima di quelle disposizioni. La Divisione antiquariato, incaricata di rivendere i tesori patrimoniali confiscati, attira soprattutto gli americani: pronti a comprare tutto, dai mobili ai gioielli, dai libri ai dipinti, i clienti d’oltreoceano immaginano perfino di smontare la cattedrale di San Basilio sulla piazza Rossa per ricostruirla in America.
Con Stalin, tutto ciò che non ha un valore significativo potrà essere smistato nei musei di provincia, mentre le opere apertamente sovversive, come i quadri cubisti di Picasso, potranno essere distrutte. In preda al terrore, i conservatori moscoviti prendono a scartare freneticamente tutte le opere che recano il marchio infamante del formalismo. E l’Ermitage ottiene le tele più controverse e la maggior parte dei Picasso e dei Matisse, a cominciare da La Danse e La Musique.
Nel 1923, Sergej Ivanovič Šchukin mette mano al testamento redatto nel 1907. Annullando la scelta di donare il corpus di opere alla Galleria Tret’jakov di Mosca, le ultime volontà del collezionista decretano che la totalità dei suoi beni venga trasmessa alla sua famiglia. È il suo modo di rivendicare il proprio diritto sulla sua splendida raccolta. Šchukin conclude la sua esistenza a Parigi come rifugiato. In Russia, le sue collezioni restano a lungo simbolo di pittura decadente e borghese, e pertanto vengono escluse per decenni da qualsiasi esibizione pubblica.