La letteratura critica su Schubert ha a lungo tergiversato se metterlo tra i musicisti romantici o no. Alfred Einstein risolve salomonicamente la questione definendolo classico-romantico; ma in questo modo non solo non l’ha chiusa, l’ha complicata. D’altronde, cosa fa di un musicista un musicista classico e cosa lo rende un romantico? Un discrimine musicale credo sia possibile trovarlo nella costruzione dei temi. È opinione diffusa, soprattutto tra ascoltatori di non profonda alfabetizzazione musicale, che un tema coincida con la melodia che si percepisce all’ascolto. Sbagliato! Quest’idea del tema musicale è una conseguenza della rivoluzione introdotta dai musicisti romantici, che affidano appunto alla melodia il ruolo dominante nella costruzione di un tema (non solo, è una semplificazione).

L’organizzazione dei temi
L’approdo più evidente di questa impostazione sta nella costruzione dei motivi conduttori del dramma musicale di Wagner. In Haydn, in Beethoven non è così. In Mozart sta in maniera ancora più complessa, il che contraddice solo apparentemente la percezione di una maggiore orecchiabilità e facilità della sua musica. Haydn e Beethoven comunque considerano tema l’interazione di ritmo, melodia e armonia, e non il solo profilo melodico. Il tema, anzi, può avere per cellula generatrice addirittura solo un ritmo, e non un’armonia, una melodia: accade, per esempio nella Quinta Sinfonia, ma anche, sorprendentemente, nel Concerto per violino: alla base del tema c’è il ritmo di cinque semiminime ribattute, e non una melodia, quasi in contrasto con il violino cui è destinato, che si suppone il più melodico degli strumenti. Difatti, nel concerto Beethoven inventa melodie accattivanti, sublimi, ma la cellula generatrice è un ritmo, non una melodia.

Qui interviene Schubert, non si dimentichi, un contemporaneo di Beethoven, alla cui morte sopravvive poco più di un anno. Schubert organizza i temi dilatandone il profilo melodico, articolandolo, segmentandolo, modificandolo via via per minime variazioni, ripetendolo e ripetendolo fino quasi alla noia (la «divina lungaggine» di cui scrive Schumann).

Ora, cosa fa Andrea Lucchesini nel suo ambizioso progetto interpretativo dedicato alle ultime opere per pianoforte di Schubert? Il disco da poco uscito comprende l’ultima Sonata in si bemolle maggiore D. 960 e i Tre pezzi D. 946, mentre nel volume precedente, uscito l’anno scorso, si ascoltavano la Sonata in la maggiore D. 959, anch’essa dell’ultimo anno, la Sonata in la minore D. 537, una delle prime, e l’Allegretto di Do minore D. 915, anch’esso tardo (Audite 97.765 / 97.766). Significativamente, sono accostati, in quella incisione, una sonata tarda e una sonata giovanile, a dimostrare quanto coerente fosse il percorso di Schubert per tutto l’arco della sua vita.

Le due sonate sono in relazione tonale, la maggiore/minore. È, anche questa, una scelta interpretativa: un modo per porre in rilievo il pensiero armonico del compositore. Tutto ciò diventa ancora più evidente nel secondo volume, dove però le relazioni tonali tra i brani, e all’interno dello stesso brano, sono più complicate.

Lucchesini ha un modo tutto suo di mettere in risalto le avventure armoniche di Schubert, le fa percepire con un mutamento del tocco. Lo stesso fa durante il percorso di un tempo e di un brano. È come se l’ascoltatore percepisse, nel variare dell’intensità del suono, il pensiero armonico del compositore, esaltato appunto dal pianista che fa sentire con nitidezza la funzione costruttiva che ha la melodia in Schubert. Non solo bella, accattivante – anzi a volte respingente, aspra, sgradevole (sezione centrale dell’Adagio della Sonata in la maggiore, momenti tempestosi del primo tempo della Sonata in si bemolle maggiore) – la melodia è, soprattutto, l’ossatura della forma, il suo supporto architettonico e chi sa quanto influisca in Lucchesini, per questa intelligenza del potere costruttivo di una melodia, la sua esperienza della musica moderna, di Berio, per esempio.

Si ascolti l’attacco del Sonata in si bemolle maggiore. È una melodia dolcissima, cammina lentamente, sembra non finire mai. Di fatti non finisce, perché se intervengono elementi che sembrano interromperne il flusso, ci si accorge che sono solo varianti, amplificazioni del motivo iniziale.

Sonorità di una invocazione
La costruzione di ogni pezzo di Schubert, non importa se sia un Lied, un improvviso, un valzer o un tempo di sonata, non è più basata sulla sovrapposizione degli elementi di un tema, bensì sulla ripetizione del suo profilo melodico. Lucchesini è lucidissimo nel farlo percepire con fluide variazioni del tocco, con dilatazioni e costrizioni del respiro ritmico, con continuo e flessibile variare del fraseggio: non si tratta di ritardare o di accelerare, si tratta di respirare. Il rubato, non solo romantico, non è un variare del tempo, ma un suo respiro. Si ascolti poi la sezione in la bemolle minore del secondo pezzo D. 946. È una melodia che più schubertiana non si può immaginare: all’apparenza semplicissima, i gradi fondamentali dell’accordo solfeggiati in sequenza. Ma è il magma sonoro in cui questa semplice melodia affonda a darne il senso di disperata invocazione. Qui Lucchesini tocca davvero vertici di comunicazione in cui la bellezza del canto è simultaneamente una lucida lettura della costruzione del pezzo.

Tutto canta, in Schubert, anche il basso ostinato che spesso sostiene le melodie, gli accordi ribattuti che sembrano anticipare fasce sonore di musica elettronica. Canta anche il ritmo della morte che pervade l’intera ultima sonata: dattilo seguito dallo spondeo. Può essere terribile. Ma può essere anche dolcissimo. E dalle dita di Lucchesini questa dolcezza, estrema, penetrante, diventa più terribile, più disperata di un grido.