A Tarquinia nessuno sembra saperne niente o ne vuol parlare, neanche in parrocchia o nei bar. Tutto è avvolto dalla nebbiolina della Tuscia viterbese, anche le condizioni di sfruttamento inaudite che i circa settanta operai di una fabbrichetta metalmeccanica dell’area industriale hanno vissuto nel corso di lunghi nove anni.

«È un’operazione della Guardia di Finanza di Viterbo, chiedete a loro», dicono infastiditi al comando dei vigili urbani. Nessuno sembra conoscere il nome della fabbrichetta dove si sono svolte almeno 15 perquisizioni nell’ambito delle indagini condotte dal procuratore della Repubblica di Civitavecchia Andrea Vardaro e della sostituta procuratrice Alessandra D’Amore che alla fine hanno portato all’arresto di quattro imprenditori per reati gravissimi, che vanno dalla riduzione in schiavitù, al nuovo reato di caporalato (illecita intermediazione), dalle minacce al sequestro di persona, alla truffa ai danni dell’Inps.

IL CLIMA DI OMERTÀ e disinteresse traspare anche dalle indagini, nel corso delle quali – si dice – ci sono stati vari tentativi di ostacolare le investigazioni iniziate nell’agosto dell’anno scorso, di influenzare e intimidire i testimoni. Una operai che stava denunciando le brutali condizioni alla quale era sottoposta sotto il ricatto del licenziamento e della mancata retribuzione è stata addirittura sequestratata in una casa isolata e messa sotto torchio.

SI PARLA DI UNA FABBRICA dove la precarietà è stata applicata nella sua forma più spietata, ma anche studiata per beneficiare delle agevolazioni contributive per la trasformazione dei contratti di lavoro in base al Jobs act e a tutte le altre agevolazioni di legge. In pratica però si doveva firmare una lettera di dimissioni in bianco non appena assunti, si percepiva una paga part time per quattro ore al giorno mentre se ne lavoravano otto o dieci, gli straordinari venivano pagati due euro o non pagati affatto, niente ferie, niente malattia, niente tredicesima. I dipendenti venivano licenziati dopo due o tre anni e poi riassunti sempre dalla stessa «banda» ma per soggetti giuridici formalmente diversi. In questo modo, ultilizzando cioè tutti gli spazi tra le maglie della legge del lavoro ormai ridotta a brandelli, gli imprenditori hanno intascato, si calcola, 1 milione e 200 mila euro, dei quali 140 mila euro solo di mancata contribuzione.

DIETRO TUTTO questo puzzle di sfruttamento finto-legale, c’era l’opera di un consulente del lavoro M.A. di 39 anni, di Tarquinia, ora interdetto dall’esercizio della sua attività professionale e sottoposto a obbligo di firma. Era lui lo stratega. Dei quattro soggetti a misure cautelari, altri due tarquinesi – P.P. di 54 anni e V. T. di 34 – sono ai domiciliari, mentre gli altri due imprenditori – C. A. di 63 anni, di origini siciliane e C. P. E. tarquinese di 32 anni – sono finiti nel carcere di Civitavecchia. L’azienda è stata messa per il momento in amministrazione giudiziale e il coordinatore di Sinistra italiana Nicola Fratoianni propone che «venga affidata alla gestione degli operai» che hanno denunciato la condizione di soggezione nella quale erano costretti, privati da qualsiasi tipo di dignità lavorativa e diritto, pur di garantirsi un magro, magrissimo salario, e non finire in una condizione ancor più insostenibile di povertà assoluta.
Inutile dire che in una situazione così infame «sindacato» era la parola più impossibile da pronunciare, la parola tabù.