«Ho lavorato per una cooperativa agricola vicino Terracina. Il padrone mi assunse promettendomi 800 euro. Sono stato pagato solo un mese ma ne ho lavorati 6. Il padrone ha scritto su un foglio bianco che mi avrebbe dato altri 2000 euro, ma ne ho ricevuti solo 300. Lui è un grande ladro». Questa è la testimonianza di H. Singh, giovane bracciante indiano in provincia di Latina che nell’Italia di oggi si trova a vivere quotidianamente da schiavo. La storia di Singh viene raccolta ancora una volta dall’associazione In Migrazione con un nuovo dossier dal titolo «Sfruttati a tempo indeterminato».

Il dossier sottolinea la persistenza di un sistema di reclutamento e sfruttamento dei braccianti indiani pontini, prevalentemente sikh, informale ma pervasivo, che prende forma nelle pieghe delle norme e delle prassi vigenti. Modalità per schiavizzare i braccianti indiani, tra caporali, anche etnici, e violenze. Un sistema rodato che fa leva su una cricca di avvocati, consulenti del lavoro e commercialisti corresponsabili di questa vergogna. I braccianti indiani, obbligati a chiamare padrone il loro datore di lavoro, lavorano 12-14 ore al giorno e vengono pagati solo per 2-3 ore. Sulle loro buste paga vengono registrati 4 giorni di lavoro a fronte dei 28-30 lavorati. Dovrebbero ricevere circa 1200 euro al mese e prendono solo acconti di 300-400 euro. Il dossier pubblica alcune buste paga, a volte scritte su fogli bianchi sui quali il padrone appunta il salario che darà al lavoratore.

Già a maggio di quest’anno il manifesto pubblicò in anteprima un dossier ancora di In Migrazione che ha fatto il giro d’Europa. «Doparsi per lavorare come schiavi» era il titolo e raccontava l’utilizzo di sostanze dopanti da parte dei braccianti indiani, non per “evadere” da una realtà repressiva e violenta ma per restarvi, oppressi, schiavi, subordinati agli ordini del padrone, per produrre alle condizioni e secondo i ritmi imposti.

Lo sa bene anche la Flai-Cgil che su questi temi è impegnata in un delicato lavoro di sostegno ai migranti e di lotta al caporalato che ha condotto la Magistratura pontina ad aprire i primi processi, dove proprio In Migrazione e la Flai si sono costituite parte civile.

Leggere il dossier fa indignare profondamente. Molti braccianti stranieri e italiani ogni mattina devono attendere la chiamata del caporale per sapere se, dove e con quale compenso lavoreranno. M. Singh è un giovane indiano di Sabaudia, ha mani consumate dalla fatica ma non gli manca la forza per raccontare la sua storia, con coraggio e dignità: «Il padrone mi deve ancora 26mila euro. Sono 7 anni che lavoro a Sabaudia e sinora ho preso al massimo acconti di 200/300 euro al mese. Eppure lavoro tutti i giorni, anche la domenica».

Così lavora e vive oggi uno schiavo in Italia. La storia di K. Singh è anche peggio. Lo dice guardandoti negli occhi, che qualche volta durante il racconto diventano lucidi: «Io lavoro tutti i giorni a Pontinia, con altri due indiani, domenica compresa. Mi alzo alle 6.00 e vado in campagna fino alle 12.00. Poi un’ora di riposo per mangiare o riposare. Ricomincio a lavorare dalle 13.00 fino alle 19.00. In estate lavoro di più perché c’è più luce. Continuo a lavorare anche dalle 20.30 fino alle 24.00 dentro il capannone per fare le cassette di verdura da spedire in Germania. 15 ore di lavoro, anche più, per soli mille euro. Lavoro come uno schiavo».

Su questo fronte In Migrazione, con l’assessorato all’agricoltura, l’Arsial e l’Osservatorio regionale per la sicurezza e la legalità della Regione Lazio e il contributo della Flai-Cgil, realizzeranno il progetto Bella Farnia, dal nome del residence in cui risiede parte della comunità indiana pontina. Il progetto prevede l’apertura del primo centro polifunzionale con attività di mediazione culturale, insegnamento dell’italiano, assistenza legale e orientamento al lavoro.

Attività per impedire storie come quella di un ragazzo indiano impiegato in un campeggio di Terracina. Il padrone italiano lo ha ridotto letteralmente in schiavitù. Il ragazzo, entrato in Italia clandestinamente nel 2011, fu assunto come guardiano notturno e uomo di fatica: 24 ore di lavoro filate a 600 euro al mese. Un compenso durato poco perché nell’ottobre del 2012 venne consentito ai datori di lavoro di mettere in regola i propri dipendenti. Il giovane indiano venne obbligato a pagarsi da solo i contributi rimanendo di fatto senza reddito, ammalandosi gravemente. È a quel punto che alcuni turisti sentono i lamenti del giovane provenire dalla roulotte, abbandonato e con gravi segni di malnutrizione.

Nel corso dell’ultimo anno qualche segnale è però arrivato, anche da alcuni imprenditori che hanno deciso di contrastare le imprese che violano diritti umani e regole del mercato. Alcuni interventi della Magistratura e delle forze dell’ordine hanno dato ragione a In Migrazione, confermando un sistema di reclutamento e sfruttamento dovuto alla collaborazione di intermediari indiani e italiani.

Nel marzo del 2013 si è conclusa una complessa attività d’indagine della squadra mobile di Latina che ha disarticolato un’organizzazione criminale dedita al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e del falso documentale.

A luglio scorso sono state invece arrestate 7 persone per sfruttamento lavorativo; ai braccianti indiani veniva trattenuta la metà della somma corrisposta dai datori di lavoro (circa 500/600 euro rispetto a un compenso di 1.000/1.200 euro).

Senza contare i sequestri di ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti, soprattutto oppioidi, antispastici e metanfetamine. Anche la Commissione Antimafia si è interessata al fenomeno ascoltando le denunce di In Migrazione e Flai.

Ora la proposta è di ricondurre il reato di caporalato nel 416 bis, ossia nel reato di associazione di stampo mafioso, implicando responsabilità dirette dei datori di lavoro e caporali per la violazione sistematica dei diritti umani, e di tornare al collocamento pubblico. Intanto domani sarà, per migliaia di braccianti indiani pontini, un altro giorno di ordinario sfruttamento.