Con un voto che ha clamorosamente ribaltato gli equilibri politici, i democratici del congresso hanno bloccato venerdì il trattato sul libero commercio che Obama li aveva implorati di appoggiare. Il presidente aveva chiesto poteri straordinari per negoziare il maggiore accordo economico di sempre con 12 nazioni asiatiche. Per ottimizzare le probabilità di un accordo Obama voleva dal congresso l’autorizzazione ad implementare una procedura abbreviata che gli avrebbe conferito la facoltà di negoziare liberamente e presentare all’approvazione rapida del parlamento un testo non modificabile.

Come nel caso dell’altro grande trattato sul libero commercio, quello transatlantico (TTIP) in via di discussione con l’Europa, il trans-pacific partnership (TPP), è avvolto dal massimo «segreto esecutivo». I membri del congresso possono in teoria chiedere la visione della bozza ma sono tenuti a non divulgarne i contenuti. Se il decreto di Obama fosse passato i parlamentari avrebbero potuto votare su una bozza definitiva ma senza introdurre modifiche o emendamenti.

Negli ultimi mesi sono comunque trapelati elementi degli accordi fra cui il potenziamento dei «diritti intellettuali» e dei brevetti (quelli sui farmaci ad esempio) e maggiori facoltà per l’industria di sottrarsi a norme ambientali, se necessario querelando stati sovrani. Un accrescimento dei poteri delle multinazionali che è stato fortemente criticato dall’ala liberal del partito del presidente. Elizabeth Warren, critica di punta degli abusi di Wall Street è stata principale portavoce progressista della fazione no trade. Warren ha denunciato la segretezza che ha avvolto le trattative, sfidando il presidente a rendere noti i dettagli dei trattati. «Il governo non vuole che si sappia cosa si sta per firmare perché sa che la gente sarebbe contraria» ha dichiarato il mese scorso la senatrice del Massachussets. Molti altri esponenti democratici hanno espresso forti preoccupazioni sul rischio di ulteriore delocalizzazione a cui particolarmente il trattato asiatico potrebbe esporre i lavoratori americani. I sindacati hanno chiesto garanzie sull’imposizione di regole internazionali su eventuali firmatari emergenti come Messico, Vietnam e Peru. La crisi umanitaria dei profughi del sudest asiatico ha sottolineato i pericoli con le recenti rivelazioni sul diffuso lavoro forzato in Malesia.

Molti insomma ravvisano nei trattati di commercio nuovi impulsi alla globalizzazione economica a costo di sicurezza lavoro e ambiente. «I nostri lavoratori hanno già perso milioni di posti a causa di precedenti trattati e sono comprensibilmente scettici» ha dichiarato Eric Hauser, portavoce della principale confederazione sindacale AFL-CIO. Bernie Sanders, il senatore socialista del Vermont candidato alle primarie presidenziali democratiche, ha fatto dell’opposizione agli accordi il tema centrale della propria piattaforma contro la diseguaglianza sociale. Il suo collega dell’Ohio, Sherrod Brown, rappresentante di un distretto della «rust belt» deindustrializzata, si è detto «infuriato» dall’energia spesa dall’amministrazione per spingere un’iniziativa destinata a favorire l’industria invece di programmi sociali o l’aumento del minimo salariale.

Sul libero commercio Obama si è così trovato paradossalmente allineato con i repubblicani, in maggioranza favorevoli a una liberalizzazione voluta soprattutto da industria e finanza. Malgrado un appello in extremis fatto in persona dal presidente alla vigilia del voto, il congresso coi voti dei democratici ha respinto la richiesta di Obama che pure aveva aggiunto ulteriori garanzie sul risarcimento di eventuali lavoratori in mobilità. Una sconfitta cocente che a Obama è costata una pubblica umiliazione e la defezione anche di fedelissimi come la leader di minoranza Nancy Pelosi e al partito una vistosa spaccatura.

Un errore di calcolo per Obama che ha sottovalutato l’importanza attribuita alla protezione del lavoro da una forza lavoro ancora esautorata dalla crisi e da una falsa ripresa che ha sostituito impieghi sindacali con sottovaloro e precariato. Si è invece trattato di una vittoria per la sinistra progressista che ha dimostrato una forza politica insospettata forse anche da essa stessa.

Un segnale infine che secondo molti democratici farebbe bene a recepire Hillary Clinton. La candidata democratica “in pectore” ha ufficializzato proprio ieri la propria candidatura. Nel discorso per il lancio della campagna tenuto a Roosevelt Island a New York ha rotto forse non casualmente il silenzio manenuto finora sulla questione commercio e diseguaglianza. Citando Franklin Roosevelt ha dichiarato che la propria campagna sarà fondata sull’idea di un’America in cui «una vera prosperità deve essere condivisa da tutti».