Si è conclusa un’altra edizione del Cinema Ritrovato disseminata di capolavori, e con successo in crescita. Era inevitabilmente segnata dalla scomparsa del direttore Peter von Bagh che le ha lasciato una magnifica doppia eredità: il programma dei suoi film (a cura dell’amico Olaf Möller) ne ha fatto scoprire il valore di cineasta; con attorno rassegne (McCarey e il disgelo sovietico in particolare) che provenivano dall’ideazione e dalla programmazione di Peter negli anni scorsi. Queste zone del programma sono state le più affascinanti, insieme alla pionieristica rassegna della nouvelle vague iraniana, alla riproposta da Cannes dell’epocale film postumo di Oliveira (in copia 35mm della Cinemateca Portuguesa, e non in digitale come il troppo relativistico programma annunciava senza preoccuparsene), e ad alcune magnifiche copie vintage in Technicolor come quelle di Great Day in the Morning di Jacques Tourneur e di The Heroes of Telemark di Anthony Mann.

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Ma vorremmo aggiungere a queste punte assolute del festival la proiezione di un «documento» restaurato dall’Istituto Luce il cui ritrovamento non appartiene all’istituto statale che l’aveva prodotto (ma non lo conservava) bensì al mai sufficientemente riconosciuto Archivio della Resistenza di Paolo Gobetti: si tratta di Il duce a Trieste, mediometraggio dedicato nel 1938 al discorso che non solo preannunciava le leggi razziali ma collegava il discorso antisemita a un rilancio industriale allineato all’ideologia di Himmler.
Pur essendo il contenuto di quel discorso noto, il film che lo documenta è francamente rivelatore, e per un triestino come lo scrivente decisamente impressionante perché probabilmente mai la splendida Piazza Unità con orizzonte sul mare fu affollata come in quel momento.

Ancora una volta, come succede nei film iraniani, in quelli sovietici e in quelli di McCarey, il cinema con la sua flagranza del reale contiene la verità cui le ideologie nulla possono. La breve rassegna dei film anteriori al khomeinismo, proposta da Ehsan Khoshbakht e intelligentemente intercettata da Gian Luca Farinelli, è stata una scelta (che vorremmo pilota) di valore straordinario. Conoscevamo la sublime Forugh Farrokhzad (peraltro qui assente forse perché relativamente nota), e avevamo visto già alla prima Mostra di Venezia diretta da Rondi (probabilmente la migliore di tutta la storia del festival) Gaav di Dariush Mehrjui nel frattempo divenuto classico iraniano per eccellenza, ma non conoscevamo gli altri autori qui proposti, come Farrokh Ghaffari e Sohrab Shahid Saless, scomparso in esilio in Germania.

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Il film qui proiettato dell’ultimo, A Simple Event, è un capolavoro assoluto, uno dei film più dreyeriani della storia del cinema, la cui ferocia, censurata dal regime dello Scià, non poteva non essere confermata dalla censura del regime islamista. Che oggi questi film possano alfine circolare (quantomeno all’estero) è un evento d’importanza paragonabile al ritorno dei film censurati sovietici in epoca gorbacioviana. Ogni momento in A Simple Event è storicamente capitale, e l’apparizione delle due infermiere in minigonna ha oggi un valore rivoluzionario. L’episodio della morte della madre, che la religione accetta come una fatalità, è dreyerianamente echeggiato da una splendida colonna sonora in diretta percorsa da latrati e vagiti: è l’esito ultimo di quel totalitario «qui non ci sono né bambini né cani» del Vampyr di Dreyer.

Anche se il programma del festival non conteneva alcun film di Dreyer, ne scoprivamo incessantemente la presenza (anche in Oliveira). Con quello di Shahid Saless vi erano almeno due film dialoganti con il luogo centrale del cinema che è Ordet. Il sommo capolavoro di Jacques Tourneur Great Day in the Morning contiene una delle più belle sospensioni della vita oltre la morte mai viste al cinema. L’altro film cui ci riferiamo è un McCarey, del quale già conoscevamo la stretta relazione con Dreyer. Questa piccola retrospettiva (davvero troppo piccola) ha confermato senz’ombra di dubbio che McCarey è il massimo cineasta americano, il più contiguo con i massimi assoluti Dreyer e Rossellini. Quale sorpresa però nel trovare nel più ignoto dei suoi film, Part Time Wife, la scena di un ritorno in vita di un cane, che sottolinea anche il rapporto del regista con il più avanzato pensiero cattolico sulle presenze animali, confluito nella recente enciclica papale.

Tutti ricordiamo in Going My Way di McCarey la scena del pranzo del prete coi volatili appena uccisi, che apparve il segno di un relativismo cattolico verso le morti animali (quanto in L’albero degli zoccoli di Olmi il sacrificio del maiale). Nei film di McCarey qui visti, disseminati di presenze animali, la scena del citato Part Time Wife proveniente dalla prima epoca sonora assume il valore di scena fondante di cui Going My Way sarà, come il «maccartista» My Son John e alcuni film tardi del regista, segno dei traumi del reale cui il cinema si ribella.

Vi sono stati almeno due altri momenti della rassegna McCarey, alle proiezioni di Love Affair e Make Way for Tomorrow, in cui provavamo l’emozione convinta di assistere al più bel film mai visto. Ma il bello è che molti film di McCarey ritenuti minori si rivelano oggi straordinari, per esempio The Milky Way con Harold Lloyd. McCarey travolge i confini tra comico e mélo: si ride fino alle lacrime e si piange felici che il cinema sia più intenso della realtà. In conclusione, alla fine di ogni proiezione uscivamo in lacrime. E che dire di Ruggles of Red Gap con uno straordinario Charles Laughton e molteplici splendidi caratteristi? se non che si tratta di uno dei più sovrani discorsi sull’America mai fatti, dove la recitazione del discorso di Lincoln è il momento del cinema che meglio precede il biopic di Spielberg.

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E poi le presenze femminili, che raramente giungono nel cinema alla sensualità rivelata da McCarey: pensiamo al finale del pur minore The Awful Truth dove Irene Dunne diventa corpo e voce femminile per eccellenza, ma pensiamo anche alla meno nota Leila Hyams (interprete di Freaks di Tod Browning) che nei film di McCarey raggiunge l’estasi della presenza fisica.

Purtroppo, come abbiamo osservato, la rassegna McCarey bolognese, proprio perché debordante di capolavori, è stata nettamente inadeguata, omettendo gli ultimi McCarey e altri film essenziali (alcuni come My Son John e An Affair to Remember con lo sterile argomento che il festival li aveva già proiettati), e rassegnandosi a proiettare uno dei massimi capolavori (The Bells of St Mary’s) in digitale: un regista che unisce corpo e anima come McCarey fa ben capire che il cinema ha bisogno di non perdere il corpo pellicolare. Attendiamo quindi con fiducia, da qualche festival ancora sensibile, una prima retrospettiva completa del regista perché quelle dedicategli da qualche archivio non ci bastano, e i piccoli omaggi realizzati qua e là (dai Mille occhi a Cinema Ritrovato) fanno solo venir voglia di vederne tutto.