Più stratificato di quanto si potesse pensare, pur in alcuni inciampi fisiologici; anzi ibrido, necessariamente spurio, tra industria e realismo, film di genere e antropologia, film di formazione e politica in senso ampio, esistenziale, ecosistemico; ruvido ed emotivo, Mondocane (già nelle sale) è il primo film in concorso alla Settimana della Critica, che si preannuncia quantomeno attraente, sfolgorante, a fronte di una gamma variegata di registri linguistici, temi, complessioni dentro quel microcosmo che è la Sala Perla.

VIGE L’EGIDA di Matteo Rovere (in veste di produttore), che insieme a Sibilia è divenuto ormai un marchio riconoscibile (e di una certa qualità) nel cinema italiano di consumo, cioè di un tipo di prodotto cinematografico che non rinuncia alla dialettica di base, a una problematizzazione dei temi, anche all’esposizione delle contraddizioni, come accadeva già in un altro bell’esordio prodotto da Rovere-Sibilia, quello di Leonardo D’Agostini con Il campione. Qui è Alessandro Celli a esordire in un film che non ha molti altri precedenti in Italia, se non tornando indietro agli anni Settanta o guardando alla letteratura recente, cioè al romanzo di Omar Di Monopoli, Nella perfida terra di Dio, in cui regnavano le ruggini, i fondachi pieni di ciarpame, di rovine, in un entroterra tarantino che vedeva barcamenarsi i due ragazzini protagonisti, tra figure che sembravano uscite ora da un film di Corbucci, ora di Dario Argento.
In Mondocane agiscono dimensioni, ottiche differenti: c’è la superficie del genere, il crepitare feticistico, ludico delle superfici che ordiscono la narrazione, tra Mad Max, 1997. Fuga da New York, Gangs of New York da dove peraltro, dal volto ferino di Bill il macellaio, sembrano venire i baffoni di Testacalda, impazzito, furente di dolore per il suo popolo sfruttato, intossicato, figura in chiaroscuro a cui uno splendido, mercuriale Alessandro Borghi conferisce un’umanità imprevista.

E C’È ALLO STESSO tempo la profondità delle psicologie, dei metabolismi raminghi, della sofferenza biascicata, esorcizzata o altrimenti urlata da Mondocane e Pisciasotto. In questo senso di reattività tutta corporale, nuda, Protopapa e Soprano funzionano molto bene (e avranno modo di affinarsi sul piano della fluidità dei gesti e delle battute), così come Ludovica Nasti e Barbara Ronchi, splendida interprete del fallimento, senza dimenticare l’apporto in termini di sensualità post-apocalittica di Federica Torchetti e quel grande caratterista che è Nando Paone, nei panni del laido pescatore che abusava dei due ragazzini. Ma questa sofferenza è alla fine quella di tutta una comunità (e umanità) ricattata dal lavoro (non solo quello all’Ilva, ma ogni condizione di sfruttamento, di provvisorietà protratta), dal potere, dal capitale infestanti. Spicca in effetti, oltre che la sequela di ciminiere sullo sfondo, perennemente sbottanti miasmi, tutto l’armamentario della borghesia, di un’opulenza che è mostrata da Celli attraverso colori algidi, anzi scialbi, e linee dritte, delimitanti i cubi puliti delle costruzioni di Taranto alta.
Un’immagine così diversa dalla concitazione figurativa delle periferie, di zone rugginose, cancerose in cui, insieme alle Formiche (ragazzini combattenti, rapinatori, suicidi), resiste un’umanità privata di tutto, ma non di sentimenti come l’amore e l’amicizia, sempre in filigrana per tutto il tempo in cui Mondocane e Pisciasotto cercano semplicemente di ipotizzare ed esorcizzare una qualche versione del futuro.