Il destino di Giorgio Scerbanenco ha qualcosa di paradossale. Da un lato i suoi romanzi noir sono sempre più letti e ristampati, dall’altro permane tuttora un ostinato pregiudizio critico sul suo conto, che lo esclude da ogni canone accademico. Con buone ragioni molti hanno paragonato il caso Scerbanenco a Simenon; tuttavia, se i romanzi di quest’ultimo figurano ormai tra i classici della Pléiade, quelli di Scerbanenco non sono mai sostanzialmente usciti dagli effimeri scaffali della letteratura di genere. Per non parlare della fortuna critica: i saggi su Scerbanenco sono pochi e, salvo rare eccezioni, di modesta qualità. Anzi, in certe sedi culturalmente più paludate, è già tanto che si accetti di parlare dei suoi libri: come se lo statuto letterario di Scerbanenco sia considerato non pienamente in regola, al pari della fedina penale del suo personaggio più famoso, Duca Lamberti (che finì in carcere per aver praticato l’eutanasia). I contributi più utili sono stati quelli dei bibliografi, più che dei critici: penso ad esempio all’utile lavoro di recupero editoriale di Roberto Pirani, il quale, oltre scovare testi inediti o dimenticati, è riuscito ad allestire una bibliografia, non dico esaustiva (impresa impossibile, vista la mole di materiali da censire), ma ricca e attendibile degli scritti letterari e giornalistici, districandosi tra gli innumerevoli pseudonimi scerbanenchiani.
Un impegno costante in questa stessa direzione è stato profuso, ormai da diversi anni, dai familiari dello scrittore, e in particolare dalla figlia Cecilia, che ha appena pubblicato un’avvincente e appassionata biografia, Il fabbricante di storie Vita di Giorgio Scerbanenco (La Nave di Teseo, pp. 180, € 19,00). Al contrario di molte biografie pubblicate dai parenti dei biografati, questo libro non scivola nell’apologia; racconta l’uomo e lo scrittore con affetto filiale, certamente; ma senza indulgenze: né umane né letterarie. Inoltre Cecilia Scerbanenco attinge a una grande quantità di materiali inediti (carteggi, opere mai pubblicate, abbozzi, appunti, diari), da cui ricava elementi nuovi per ricostruire la vita del padre e la genesi dei suoi scritti.
Volodymyr Valerianovic Šcerbanenko (alias Giorgio Scerbanenco) nasce a Kiev nel 1911 da madre italiana e padre ucraino. Questi, un professore universitario di greco e latino, fu ucciso nel corso della rivoluzione russa; a quel punto la madre non ebbe altra scelta che riportare il piccolo Giorgio in Italia, prima a Roma dai parenti, e quindi a Milano, dove Scerbanenco crebbe e si formò. Lo scrittore è quindi un apolide, ma non solo sotto il profilo anagrafico: viene da pensare che le circostanze tragiche della sua prima infanzia gli abbiano impresso il marchio dell’esule, e un certo senso di estraneità, di esilio metafisico, affiora carsicamente in molte sue pagine.
Giorgio e la madre conducono un’esistenza tutt’altro che agiata, e negli anni giovanili il futuro scrittore è costretto a svolgere i mestieri più diversi, dal fresatore al barelliere della Croce Rossa. Pochi letterati italiani hanno avuto una formazione del genere, e non ci sono dubbi che un percorso così anomalo e travagliato abbia messo Scerbanenco in contatto con un tipo di umanità marginale e derelitta, che nessuno, prima di lui, nell’ambito della nostra narrativa, aveva raccontato con vera profondità.
Il debutto come narratore avviene sotto l’egida di Cesare Zavattini, che nel 1934 fa accogliere un breve racconto di Scerbanenco, Presentimento, nella rivista «Piccola» di Rizzoli (il futuro editore di tanti romanzi scerbanenchiani). Come informa Cecilia, si tratta di un racconto «rosa venato di noir». Ecco, se come autore di noir o di gialli (si pensi al fortunato ciclo di Arthur Jelling) Scerbanenco è considerato un modello, come autore di romanzi e racconti «rosa» è, al contrario, molto meno conosciuto. Ha fatto quindi bene Cecilia Scerbanenco a dedicare ampie parti della sua biografia alla narrativa rosa e alle riviste femminili, in particolare quelle edite da Rizzoli, su cui il padre tenne per lunghi anni rubriche seguitissime. Sotto vari pseudonimi, lo scrittore rispondeva alle lettrici, che lo interpellavano non solo sulla loro routine sentimentale, ma anche su temi tragici, come la violenza domestica e il disagio psichico. Apparentemente questi scambi con le lettrici, citati estesamente nella biografia, sembrerebbero avere poco a che fare con la letteratura, ma in realtà proprio nelle rubriche di posta del cuore si possono trovare i semi di molti romanzi rosa o noir. In ogni caso lo Scerbanenco rosa meriterebbe di essere riconsiderato più attentamente, anche sotto il profilo letterario: in mezzo a narrazioni stereotipate o troppo prevedibili, si trovano piccoli gioielli di letteratura popolare, come il fortunato romanzo La ragazza dell’addio o Anime senza cielo, che racconta il mondo degli esuli (oggi diremmo migranti) slavi nell’Italia del dopoguerra. Perfino in una raccolta di racconti dal titolo smaccatamente sentimentale La ferita dell’angelo, si possono rinvenire a sorpresa delle perline letterarie (nella misura breve Scerbanenco raggiunge gli esiti migliori). D’altronde i titoli «rosa» non devono trarre in inganno: penso al breve Si vive bene in due, che è in realtà la storia di un triangolo amoroso. Per non parlare dello sconvolgente romanzo del 1945 Luna di miele (purtroppo irreperibile, se non in qualche biblioteca), in cui un uomo, per poter fuggire dalla prigione emotiva nella quale l’ha confinato il matrimonio, uccide la moglie e scappa con un’altra donna: piuttosto una luna di fiele, come il titolo di Pascal Bruckner divenuto un film di Polanski.
Come si vede, in Scerbanenco il confine tra rosa e nero è sottilissimo. Sarebbe, anzi, difficile stabilire quando avvenga il passaggio da un genere all’altro: come ha scritto Luca Crovi, la separazione tra fase rosa e fase noir è «realisticamente impossibile, valutando i contenuti specifici delle sue opere e non si può nemmeno affermare che ci siano state due fasi successive di sviluppo o di propensione del nostro autore per un genere o per l’altro». Un’ulteriore riprova di ciò la fornisce ora anche l’inedito L’isola degli idealisti (La Nave di Teseo, pp. 218, € 19,00), che Cecilia ha pubblicato contemporaneamente alla biografia. Composto tra il 1942 e il 1943 in un albergo di Iseo – prima che Scerbanenco si rifugiasse in Svizzera per sottrarsi alle insidie del regime fascista –, il romanzo ha come protagonista Celestino Reffi, un medico che si propone di redimere moralmente due delinquenti approdati all’improvviso nell’isoletta semiabbandonata in cui vive con i familiari. Se non è un noir in senso stretto, il libro anticipa sicuramente aspetti delle opere degli anni cinquanta-sessanta: tanto che Reffi ricorda per certi versi Duca Lamberti (anche lui medico). Con la quadrilogia romanzesca del medico-detective (composta da Venere privata, Traditori di tutti, I ragazzi del massacro, I milanesi ammazzano il sabato) Scerbanenco tocca il vertice della sua arte, anche dal punto di vista stilistico. Ma l’importanza dei romanzi di Duca Lamberti va oltre la narrativa letteraria: sono storie che hanno contribuito a plasmare l’immaginario, anche attraverso il cinema, ispirando registi come Fernando Di Leo e Duccio Tessari, entrambi idolatrati e citati da Quentin Tarantino. Dall’Italia delle riviste rosa all’America pulp di Tarantino: ecco fin dove ci porta il genio poliedrico di Scerbanenco.