Si tiene lunedì a Roma (al teatro Vascello dalle 10.30 in poi) un incontro dal curioso titolo: 2025, guardando oltre. L’appuntamento, rivolto a artisti e operatori teatrali, ma anche alla stampa e agli spettatori interessati, è organizzato dal teatro ospite e da Le vie dei Festival. La manifestazione romana si è da poco conclusa con un notevole successo, e con il suo programma (che comprendeva nomi di culto come Enzo Moscato a fianco di gruppi nuovi e nuovissimi) ha mostrato le possibilità che il teatro, fuori della ufficialità, ancora può mantenere con il pubblico dei suoi amatori. Nello stesso tempo, come la direttrice Natalia Di Iorio non si è stancata di ripetere in queste settimane, ha anche messo a nudo non tanto «l’ingiustizia», quanto l’insensatezza dei meccanismi e delle consistenze dei contributi da parte dell’ente pubblico (comune, regione, ministero): attraverso bandi difficilmente comprensibili, giudizi discutibili e commissioni anch’esse opinabili. Per questo, ad esempio, son venuti a mancare i due previsti spettacoli di Alvis Hermanis nel cartellone delle Vie dei Festival, manifestazione che negli anni aveva fatto conoscere al pubblico romano personalità oggi universalmente venerate, da Nekrosius ad Alain Platel, da Kentridge al Belarus Free Theatre.

Ma non è di semplici soldi che l’incontro di lunedì vuole discutere, quanto del valore e della funzione che il teatro si avvia a svolgere nella società italiana, nei prossimi dieci anni, il fatidico 2025 del titolo appunto, e delle scelte di tutti i soggetti coinvolti nel processo del fare e del comunicare teatro. La chiamata a confronto è piuttosto «sugli esiti di queste scelte per provare a immaginare lo scenario futuro, e cercare di capire in quale direzione stiamo andando; come difendere il lavoro di qualità; se il processo in atto ha avuto una genesi nel recente passato».

Il nodo da affrontare non è semplice né di poco conto, e l’insieme di questi problemi era stato quasi vivisezionato in un brillante e articolato documento che Massimiliano Civica e Attilio Scarpellini (regista importante il primo e spettatore/comunicatore il secondo) avevano lanciato un paio di settimane fa dal festival Contemporanea di Prato, col titolo letterario e intrigante (preso da Bettelheim) La fortezza vuota, discorso sulla perdita di senso del teatro.
Proprio il teatro appare infatti come fortezza vuota, dopo che stanno andando perduti i suoi fondamenti civili e culturali. E responsabile di questo svuotamento è proprio chi il potere oggi detiene, e che senza neanche tanti pudori, davanti alla perdita di importanza della scena nella società, ne ha costruito l’ultima ghigliottina con l’assai discutibile attuale legge sul teatro. Nuova per elaborazione e entrata in vigore, ma molto classica come arma di eliminazione di qualsiasi pratica non solo di opposizione, ma anche di semplice esistenza e resistenza ai poteri costituiti.

La disamina di Civica e Scarpellini è tanto feroce quanto brillante e convincente. Ai due autori non servono particolari forzature, dimostrando, dati e regolamenti alla mano, come la manovra, [che può entusiasmare solo l’improvvido ministro Franceschini, ndr], privilegia solo i grandi teatri metropolitani, anzi due soli di fatto, Milano e Roma, anche se la burocrazia ministeriale (ovvero il dottor Nastasi che fino a poche settimane fa totalmente la governava) di teatri nazionali ne ha fatti spuntare sette, seppur con varie macchie genetiche. Saranno loro ad assorbire sempre più risorse e investimenti pubblici, grazie a norme scellerate che premieranno con contributi maggiori chi rivendicherà fin dai propri preventivi i maggiori deficit! Non perché rifiuteranno nei propri cartelloni artisti innovativi, o semplicemente capaci di suscitare le emozioni e le comunanze che il teatro sarebbe chiamato ad accendere, ma perché da quella prospettiva semplicemente «quantistica», sarà certo più facile il disavanzo di grosse produzioni tanto colossali quanto pompieristiche.

In realtà il vero «autore» del teatro italiano sarà sempre meno l’attore o il regista (tanto più dopo la scomparsa di Luca Ronconi, e poco tempo prima di Massimo Castri), quanto il «direttore» del teatro, carica oggi ambitissima per lo strapotere che andrà ad assumere, anche se spesso appannaggio di politici frustrati o di rampanti amministratori dell’illusione teatrale, in senso letterale. Lo confermano le nomine recenti, al festival di Napoli e non solo, anche se nel capoluogo campano il governatore De Luca ha imposto per mail al cda un direttore di origine circense, che a sua volta reclama già cinque vaghi vicedirettori… L’unica speranza che resta a tutt’oggi, più rassicurante dello sviluppo quasi «testimoniale» di singoli artisti proposto dalla Fortezza vuota, è la nomina a direttore generale dello spettacolo al ministero di Ninni Cutaia, che il teatro e i suoi meccanismi conosce bene. Ma certo dovrà affrontare pressioni e responsabilità davvero paurose.